Recensione in anteprima di Just Like a Woman,Golshifteh Farahani e Sienna Miller esplorano la sorellanza attraverso la danza del ventre
L’uscita in sala, giovedì 7 marzo, di Just Like a Woman ci fornisce lo spunto per dedicare qualche riga alla Festa della Donna, ricorrenza che, se ha perduto un po’ della tradizionale retorica post femminista, ha invece acquisito un significato ancor più profondo nelle coscienze, proprio nell’anno in cui più forte si è levato il grido verso i residui di un patriarcato che in Africa come in Cina, in India come in Italia, ha provocato fin troppe tragedie: un crescendo di folle barbarie generata dall’integralismo sessista, ovunque ancora duro da estirpare. Ci piace allora ricordare il testo della canzone di Bob Dylan, che porta il titolo del film in esame, invitando all’ascolto della versione dell’indimenticabile Nina Simone: un piccolo omaggio alla dolce metà del mondo.
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L’ultima realizzazione di Rachid Bouchareb (Indigènes, London River…), stimato autore franco-algerino, impegnato finora nel descrivere “le dissonanti armonie” della globalizzazione, ovvero le differenze e le contraddizioni generate dalla moderna convivenza tra persone di diversa ascendenza etnica, culturale e religiosa, nella fattispecie tra persone di origine islamica e occidentale, è un road movie che affida a due giovani donne, la bionda Marylin (Sienna Miller, apprezzata interprete di Factory Girl e di Interview), e la bruna Mona (l’iraniana Golshifteh Farahani, già ammirata in About Elly e in Pollo alle prugne), il compito di occupare l’ampio scenario americano con un anelito altrettanto vasto, quello della loro libertà. E immediatamente la memoria ripercorre le immagini di Thelma & Louise (1991), le eroine che Ridley Scott ha già consegnato alla mitologia della settima arte assieme a un giovane, sfrontatissimo Brad Pitt.
Entrambe le protagoniste frequentano una palestra dove si cimentano con successo nella danza del ventre. Mona, che proviene dall’Egitto, il ritmo ce l’ha nel sangue, e le sue movenze dolci e sinuose tradiscono l’amore per Mourad, il suo sposo. La ragazza lavora in un piccolo negozio di alimentari a conduzione familiare alla periferia di Chicago, ma l’irresolutezza del marito, e i frequenti contrasti con la suocera, che le rinfaccia continuamente la propria incapacità di procreare, l’hanno esasperata. In un giorno di ordinaria depressione Mona somministra all’anziana convivente – per un fatale errore – una dose eccessiva di pasticche per il mal di cuore, che ne provocheranno la morte. Sconvolta e confusa, Mona scappa di casa…
Analogamente, a Marylin, che desidera ardentemente partecipare a un concorso di danza orientale a Santa Fe, il mondo crolla addosso in una sola giornata: senza un valido motivo perde il lavoro di centralinista, torna a casa e vi trova Harvey, il parassita nullafacente al quale è legata, a letto con un’altra, inequivocabilmente. Non rimane altro che mollare tutto e dirigere l’auto verso sud. Ma dopo qualche ora, durante una breve sosta in un’area di servizio, Marylin s’imbatte in Mona, e così le due donne decidono di unire le loro solitudini e i loro disagi, almeno fino all’audizione.
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Lungo la strada si guadagnano il necessario esibendosi per i locali. La bellezza di quei giovani corpi seminudi stimolerà gli appetiti di improbabili ammiratori. La danza del ventre è troppo sensuale e raffinata per i rozzi cowboy del Midwest: per loro, in fondo, è una specie di strip-tease. Ma l’offesa più traumatica le due amiche la riceveranno in New Mexico, ai margini di una riserva indiana, da parte di una famiglia di camperisti irretiti dalla loro “stupida musica beduina”. Costoro pestano a sangue la povera Marylin, compromettendone la possibilità di partecipare all’agognata gara di ballo. E come se non bastasse, la polizia di Chicago è alle loro costole…
L’epilogo, che evitiamo di svelare, è ricco di sorprese. Piuttosto, non possiamo astenerci dal sottolineare i pregi di quest’ originale avventura ideata dallo stesso Rachid Bouchareb, il quale disegna un classico film on the road attraverso le highways, i paesaggi e la natura potente della provincia americana, dall’Illinois al New Mexico. Tuttavia, rispetto a Paris, Texas di Wenders e a This Must Be the Place del nostro Sorrentino, Just Like a Woman aggiunge allo “sguardo europeo”, una differente sensibilità, da un lato espressa per mezzo dei ritmi e delle melodie arabe, dall’altro dalla leggerezza della sceneggiatura, che se per un verso attenua il pathos della vicenda, al contempo non risparmia di schierarsi contro l’ignoranza e il pregiudizio che generano intolleranza e violenza.
Il regista del controverso Uomini senza legge non ha bisogno di calcare la mano. Non è più tempo di mostrare la stupidità degli individui attraverso l’esibizione delle armi, com’era avvenuto nel finale di Easy Rider. In questo lungometraggio i mali e le contraddizioni della società USA vengono ampiamente compensati dal sorriso bonario, e dall’ammirevole flemma dei “nativi”, ovvero, dei pellerossa confinati nelle riserve, ai quali Bouchareb rivolge le proprie simpatie: sono loro la vera America, loro gli uomini che hanno cercato l’armonia con la terra e con il creato, e in cambio hanno ottenuto lo sterminio e l’isolamento.
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Una nota di merito, infine, va indirizzata alla bella coppia delle interpreti, che danno vita a due personalità dissimili per cultura e religione fornendo così maggiore credibilità a una storia di solidarietà al femminile, magari un tantino prevedibile, in cui, però, il linguaggio degli sguardi e quello dei corpi prevalgono decisamente sui dialoghi, sia per qualità comunicativa che empatica.
“Ascolta la musica e lascia andare il corpo” è la frase topica del film. È un invito ad abbandonarsi al turbine della danza, ma anche un augurio di libertà indirizzato a tutte le donne, ancor più gradito, crediamo, in prossimità della festa delle mimose.
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