I déjà vu! che si rivedono volentieri. Crimini e misfatti
I DéJà VU! CHE SI RIVEDONO VOLENTIERI
LE RECENSIONI di Alessandra Basile
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Crimini e misfatti + Match point di Woody Allen
4/4/2018
Recensione di due film di un mago degli intrighi della mente umana, l’uno ispirato all’altro.
Si suppone che il tema del destino – che chiamiamo, quando si tratteggia di positività, fortuna o, nel caso contrario, sventura – sia particolarmente caro a un eccelso regista, sceneggiatore e attore che porta, anche questo per un caso non dipendente dal singolo volere, il nome di Woody Allen. Un cineasta ironico. E l’ironia dicono venga dalla tristezza: i pagliacci ne sono l’esempio massimo con quelle maschere tristi e piangenti sul loro volto e l’unico scopo di far ridere grandi e piccoli. Si pensi anche che non pochi attori comici di successo nella vita si deprimono fino a farne una vera malattia. E poi se qualcuno cade sulla classica buccia di banana, una percentuale altissima del pubblico improvvisato che vi assiste scoppierà a ridere, mentre a quel poveretto potrebbe essersi, per esempio, rotta una caviglia. In tal caso, l’accidentato riderà ben poco. Le sciagure altrui, o le proprie se passate, diventano spesso oggetto di scherno e regalano pubblico, perché il racconto è affascinante o terribilmente buffo. Allen lo sa: i suoi film mostrano lati e debolezze umani con una forma narrativa, di cui spesso è artefice, che, più leggera del contenuto, si caratterizza per uno humour sempre intelligente e, come nei due capolavori di cui vado a parlare, per un acuto cinismo. Il messaggio che da questi due prodotti filmici appartenenti a due secoli diversi, l’uno quasi una bozza dell’altro, arriva forte e chiaro è che, per quanto ci impegniamo a indirizzare la nostra esistenza, le cose vanno secondo Fato. Più volte Allen fa dire ai suoi personaggi che tutto dipende dalla fortuna e che riconoscerlo è difficile per l’uomo, il quale peraltro va applaudito per come cerchi di trarre beneficio dalle piccole gioie come la famiglia, il successo sul lavoro e molto altro.
L’omicidio irrisolto, il colpevole rimasto ignoto e l’autocondanna a un segreto incondivisibile. Sia il personaggio interpretato da Martin Landau che quello personificato da Jonathan Rhys-Meyers, molto bravi entrambi nel rendere sullo schermo questo senso profondo di frustrazione per l’atto criminoso compiuto o sul quale pesa una diretta responsabilità e di lotta interna fra il dire e il non dire, scelgono la via del silenzio perché la fortuna, comunque la si intenda, è dalla loro parte. Hanno fatto una scelta precisa dalla quale non possono tornare indietro: hanno eliminato il loro problema alla radice, uccidendo o facendo uccidere la donna amata nel momento in cui le sue giuste pretese hanno significato una pericolosa minaccia alla vita dei due protagonisti, intesa come vita di facciata nulla avente a che spartire con i veri sentimenti di gioia e soddisfazione di sé ma tanto faticosamente costruita. Sono due protagonisti malati di competizione e di arrogante onnipotenza che mettono tutto, anche le persone, in secondo piano rispetto ai propri obiettivi di gloria o meglio di ascesa sociale e affermazione professionale e non risparmiano nessuno, nemmeno chi li ama. Tuttavia, Allen ne è convinto: una condanna per questi fortunati rei scampati alla galera ci sarà eccome, perché ciascuno dovrà convivere con la verità, sotto forma di fantasmi delle vittime in ‘Match point’, senza poterne mai far menzione con alcuno e sapendo di essere un vigliacco capace di far del gran male a chi ha la colpa di non avere la forza di respingerne l’intrusione nella sua vita, dunque a chi mai gli negherà la propria fiducia ricevendo in cambio un’ingiusta morte truculenta.
La musica che discretamente è un personaggio onnipresente.
I’ll be seeing you (Irvin Kahal / Sammy Fain) si accompagna a “Crimini e misfatti” e Mi par d’udir ancora (Enrico Caruso) a “Match point”. Un genio Allen anche nella scelta delle colonne sonore dei suoi film, mai banali e generalmente utilizzate quasi a sottolineare, ancora una volta, la tragicomicità dell’esistenza umana. Ma in alcune scene, quando la storia ha un apice o una svolta importante, la musica cambia e va a sottolinearne proprio la drammaticità, l’ineluttabilità. Se per il film dell’89 il regista tuttologo è ricorso a brani, fra gli altri, di Bach, Schubert e Cole Porter, per quello del 2005 si è appoggiato fondamentalmente a un compositore: Verdi. La scelta così ricercata e precisa del regista in tema musicale, oltre che di sceneggiatura, la sua essendo caratterizzata da una capacità di linguaggio e terminologie tali da rendere soprattutto i dialoghi del film davvero notevoli, ne fanno uno scienziato dell’arte cinematografica. Possono piacere o meno i suoi film, essere preferiti se appartenenti alla sfera dei suoi classici alla “Manhattan” del 1979 o invece al genere thriller come “Sogni e delitti” girato quasi 30 anni dopo, ma restano i prodotti ben congegnati di una mente raffinata, dal sottile umorismo nero con un interesse per la psiche umana. Andare al cinema per vederli non è mai un errore: del 2017 è “La ruota delle meraviglie”, con una performance da Oscar di Kate Winslet.
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Teorie a confronto: il fato o Dio, il caso o homo faber.
In Crimini e Misfatti, ultima scena, la voce narrante riporta che: “noi siamo la somma totale delle nostre scelte, gli avvenimenti si snodano così imprevedibilmente e ingiustamente che la felicità umana pare esclusa dal progetto di creazione: siamo noi con la capacità di amare che diamo all’universo un significato diverso. La maggior parte degli esseri umani trova gioia nelle cose semplici e sperano che le generazioni future capiscano di più.” Poi in Match Point il protagonista afferma che: “è terrorizzante pensare che molto è fuori dal nostro controllo. (..) Penso che sia importante essere fortunati in qualsiasi cosa. Il duro lavoro è d’obbligo ma credo che le persone fatichino ad ammettere quale ruolo fondamentale abbia la fortuna. Gli scienziati stanno sempre più dimostrando quanto la vita stessa sia frutto di un caso. Io credo che non la disperazione ma la fede sia la via più semplice.” E così ci torna alla mente il finale di un meraviglioso film biografico, “La teoria del tutto”, sull’appena scomparso Stephen Hawkings, quando il professore, egregiamente interpretato da Eddie Redmayne, di fronte a una vastità di persone presenti per lui a un congresso, alla domanda “lei ha detto di non credere in Dio, ha una filosofia di vita che la aiuta?” risponde: “noi siamo solo una razza evoluta di primati su un pianeta minore che orbita (..) nell’estrema periferia di una di 300 galassie. (…) L’uomo si è sempre sempre sforzato di comprendere l’ordine che regola il mondo. Dovrebbe esserci qualcosa di speciale ai confini dell’universo. E cosa può essere più speciale che l’assenza di confini? E non dovrebbero esserci confini agli sforzi umani. (..) Per quanto brutta possa sembrarci la vita c’è sempre qualcosa che uno può fare e con successo perché finché c’è vita c’è speranza”. La mancanza di una spiegazione assoluta che molti identificano nel supremo Creatore, l’incertezza così difficile per l’uomo da tollerare tanto da dover trovare una giustificazione di qualsiasi tipo purché egli vi si possa aggrappare e l’impossibilità di controllare il corso degli eventi talvolta semplicemente casuali sono i leit motiv di questi 3 film nonché le convinzioni di molte persone. I 3 film sono anche simili nel commentare la felicità o il senso di essa: l’uomo se la dà e spesso ci riesce bene, perché la ricava dalle piccole gioie quotidiane o da ciò che gli è possibile ottenere e concretizzare. Hawkins, che dalla scoperta della sua malattia in beffa al pronostico di una vita brevissima visse quasi 40 anni morendo solo pochi giorni fa, credeva nella Vita stessa come unica possibilità di soddisfazione e gioia per tutti: ‘siamo tutti diversi’, diceva, ma a tutti è data la speranza proprio dalla Vita.
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