Individui sovrani: il paradosso della libertà sotto osservazione

Quando la televisione pubblica scopre l’ansia da sovranità digitale
Nella puntata di domenica scorsa di Report su Rai3, Sigfrido Ranucci ha posto l’accento – con il consueto stile netto – su un fenomeno che inquieta una parte crescente dell’establishment politico, mediatico e regolatorio: l’emergere di “individui sovrani” capaci di operare nel cyberspazio accumulando ricchezza, influenza e potere senza una collocazione giuridica immediatamente riconducibile a una singola giurisdizione statale.
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Il tema è stato presentato come un rischio sistemico: soggetti non pienamente identificabili, non immediatamente tracciabili, che sfruttano le architetture digitali globali per sottrarsi a controlli fiscali, normativi o politici. Una rappresentazione che, pur senza scendere in personalizzazioni o accuse puntuali, riflette un sentimento sempre più diffuso: la paura che il potere stia migrando dove il diritto positivo fatica ad arrivare.
Ed è qui che il discorso diventa interessante. Perché dietro la legittima preoccupazione per evasione, criminalità e asimmetrie informative, si intravede una questione più profonda: è davvero auspicabile che ogni forma di potere, relazione economica o identità digitale sia integralmente assorbita da un sistema di sorveglianza algoritmica globale?
Il rischio, come spesso accade, è che la critica all’abuso si trasformi in una diffidenza verso l’autonomia, e che la difesa della legalità degeneri in una nostalgia per il controllo totale.
Algocrazie globali: efficienza, ordine e la tentazione del recinto
Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito alla nascita di ciò che molti studiosi definiscono algocrazie: sistemi di governo – pubblici e privati – in cui decisioni, priorità e valutazioni sono delegate a modelli matematici, scoring automatizzati e infrastrutture digitali opache.
Non si tratta di fantascienza, ma di una realtà quotidiana: dal credito bancario alla moderazione dei contenuti, dalla sorveglianza fiscale alla gestione delle frontiere.
Come ricordava Michel Foucault, «il potere moderno non si esercita più soltanto attraverso il divieto, ma attraverso la normalizzazione». L’algoritmo, oggi, è lo strumento perfetto di questa normalizzazione: non punisce apertamente, ma classifica, prevede, anticipa, condiziona.
In questo contesto, l’“individuo sovrano” – termine che va maneggiato con cautela, senza mitologie né demonizzazioni – rappresenta una anomalia strutturale. Non perché sia necessariamente virtuoso, ma perché sfugge alla logica del recinto.
Opera tra reti distribuite, asset digitali globali, identità multiple e infrastrutture transnazionali. Non chiede autorizzazioni preventive. Non si presenta allo sportello.
Il sarcasmo, qui, è quasi inevitabile: per decenni abbiamo celebrato la globalizzazione come destino inevitabile; oggi, quando qualcuno la utilizza davvero, scopriamo improvvisamente che non ci piace.
Libertà, sovranità individuale e il sospetto verso chi non chiede permesso
La domanda centrale non è se esistano rischi. I rischi esistono sempre. La vera domanda è un’altra: chi decide quale grado di libertà è accettabile?
La reazione verso gli individui sovrani digitali sembra spesso partire da un presupposto implicito: ciò che non è immediatamente controllabile è sospetto per definizione.
Eppure, come ammoniva Isaiah Berlin, «la libertà non è mai sicura, ma l’assenza di libertà è sempre certa».
L’idea che ogni attività economica, ogni interazione, ogni accumulo di capitale debba essere preventivamente visibile, tracciabile e validata apre scenari che vanno ben oltre la lotta agli abusi.
Il cyberspazio, con tutte le sue ambiguità, è oggi l’ultimo spazio di sperimentazione politica non completamente territorializzato. Un luogo in cui individui, comunità e organizzazioni possono costruire forme alternative di cooperazione, finanza, informazione e governance.
Non tutte funzionano. Non tutte sono etiche. Ma la storia insegna che l’innovazione nasce quasi sempre ai margini, non al centro.
In questo senso, l’individuo sovrano non è necessariamente un eroe libertario, né un criminale mascherato. È piuttosto un sintomo: il segnale che gli Stati-nazione, così come progettati nel Novecento, faticano a governare una realtà economica e tecnologica radicalmente mutata.
Pretendere di risolvere questa frizione esclusivamente con più sorveglianza, più profilazione e più algoritmi significa confondere il mezzo con il fine.
Il futuro: meno demonizzazione, più diritto, meno paura della libertà
Il punto, signori miei, non è difendere l’illegalità. Nessuna società può prosperare senza regole.
Il punto è evitare che la lotta al disordine diventi una guerra preventiva contro l’autonomia.
La stigmatizzazione dell’individuo sovrano come figura intrinsecamente pericolosa rischia di produrre un effetto paradossale: legittimare un ipercontrollo sistemico che, in nome della sicurezza, erode progressivamente i diritti più elementari.
Diritto alla privacy.
Diritto alla sperimentazione economica.
Diritto all’errore.
Diritto a non essere continuamente valutati da una macchina.
Come scriveva Hannah Arendt, «il potere nasce quando le persone agiscono insieme, non quando vengono sorvegliate insieme».
Una società che teme la libertà più dell’abuso è una società che ha già perso la battaglia culturale.
Il vero nodo non è se gli individui sovrani debbano esistere, ma come il diritto possa evolvere senza trasformarsi in un codice penale preventivo dell’innovazione.
Serve meno indignazione televisiva e più lavoro giuridico.
Meno narrazioni emergenziali e più architetture istituzionali nuove.
Meno paura del futuro e più capacità di governarlo.
Perché, alla fine, il cyberspazio non è il problema.
È semplicemente lo specchio di una crisi di sovranità che viene da molto più lontano.
FAQ
Gli “individui sovrani” sono necessariamente illegali?
No. Il concetto indica soggetti che operano in spazi digitali transnazionali non immediatamente riconducibili a una singola giurisdizione, non automaticamente attività illecite.
Perché il tema preoccupa media e istituzioni?
Perché mette in discussione i modelli tradizionali di controllo fiscale, normativo e politico basati sulla territorialità.
Cos’è un’algocrazia?
Un sistema di governance in cui decisioni e valutazioni sono delegate in larga parte ad algoritmi e modelli automatizzati.
L’ipercontrollo digitale è inevitabile?
No. È una scelta politica e culturale, non un destino tecnologico obbligato.
Il cyberspazio può essere un baluardo di libertà?
Sì, se rimane uno spazio pluralista, aperto e non integralmente assorbito da logiche di sorveglianza preventiva.
Qual è il vero rischio democratico?
Che, nel tentativo di controllare tutto, si finisca per svuotare di significato i diritti fondamentali che si vorrebbero difendere.




