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Dati INPS. Le diseguaglianze nella distribuzione dei redditi

  • REDAZIONE TRENDIEST
  • 18 Luglio 2019
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Dalla relazione tenuta recentemente dal Presidente INPS Pasquale Tridico, si evidenziano alcuni aspetti di particolare interesse.

Indice dei Contenuti:
  • Dati INPS. Le diseguaglianze nella distribuzione dei redditi
  • Gli strumenti di policy
  • Le diseguaglianze nella distribuzione dei redditi da lavoro
  • I working rich


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Gli indicatori sociali dell’OCSE prospettano uno scenario internazionale molto diversificato, al cui interno l’intero sistema di previdenza sociale del nostro Paese veniva segnalato, agli inizi della crisi, tra quelli scarsamente preparati ad affrontare la prospettiva di un aumento della “disoccupazione di lunga durata” e della “povertà tra la popolazione”.

Alla luce di questi rilievi sulle nostre fragilità, è positivo il giudizio sulle azioni correttive in discussione e l’avviato progetto Garanzia Giovani. Anche l’OCSE rileva infatti che le recenti proposte di riforma del mercato del lavoro, i sussidi di disoccupazione universali ed i progetti di supporto per i lavoratori con reddito minimo, la riduzione della pressione fiscale per i redditi più bassi e sul lavoro rappresentano passi importanti nella giusta direzione. Occorre ora proseguire lungo il percorso virtuoso avviato, analizzando l’adeguatezza del nostro sistema di previdenza sociale nel suo complesso, muovendo dalle connotazioni che da noi sta assumendo la crisi.

Gli strumenti di policy

A questo proposito l’Istat ha recentemente segnalato come da noi “si continuano a destinare risorse troppo scarse a tutela dei principali rischi sociali”: la spesa per le famiglie, il sostegno in caso di disoccupazione, la formazione, il reinserimento nel mercato del lavoro ed il contrasto alla povertà ci vedono agli ultimi posti in Europa (ISTAT, Rapporto annuale 2014). Il quadro che emerge da un’analisi ragionata dei dati mette in luce, in maniera incontrovertibile, l’urgenza di pensare e ripensare strumenti di policy che si misurino con la sfida di conseguire una distribuzione del reddito più equa, cercando anche di restituire al mondo del lavoro il potere di acquisto relativo perso negli ultimi decenni. Ci sono ovvie considerazioni etiche e di coesione sociale, alla base di questo ragionamento. Ma non bisogna neanche dimenticare ciò che molta letteratura scientifica recente ha ribadito con vigore, negli anni precedenti e successivi alla Grande Recessione: economie più disuguali sono economie più fragili, maggiormente vulnerabili agli shock esterni e strutturalmente più in difficoltà nel generare livelli di domanda aggregata adeguati a contenere la disoccupazione.

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A differenza di quanto molta della professione economica ha pensato per decenni, equità e performance economica non sono soggette ad un presunto trade-off: sono due facce della stessa medaglia e devono andare di pari passo nel determinare gli obiettivi e le aspirazioni di un grande Paese quale è l’Italia.

Le diseguaglianze nella distribuzione dei redditi da lavoro

L’analisi della distribuzione personale dei redditi dal 1974 al 2017 mostra come, sia per i redditi annuali che per i redditi settimanali, vi sia stato dapprima una forte diminuzione della disuguaglianza negli anni settanta, seguita da un rilevante aumento fino ad inizio anni novanta. Da questo momento si assiste ad una divaricazione: mentre la disuguaglianza dei redditi settimanali dei full time rimane costante negli ultimi due decenni, quella dei salari annuali continua ad aumentare. Questa divaricazione dipende principalmente dalla frammentarietà dei rapporti di lavoro e dall’incidenza dei lavori part time, che hanno giocato un ruolo più rilevante rispetto alle variazioni dei salari orari, salari che, soprattutto a seguito delle riforme della contrattazione di inizio anni novanta, sono rimasti tendenzialmente stagnanti in termini reali.

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L’analisi della dinamica dei percentili sui redditi annuali mostra inoltre chiaramente come i bassi percentili, decimo e venticinquesimo, siano stati decisamente penalizzati negli ultimi quindici anni, e abbiano sofferto in maniera sproporzionata gli effetti della crisi economica. Si conferma l’accentuarsi della divergenza territoriale in termini di salari del sud rispetto al resto del paese, sud che è inoltre caratterizzato da livelli di disuguaglianza interni più elevati rispetto alle altre regioni. E si osserva un deterioramento della situazione del mercato del lavoro dei giovani rispetto alle altre classi di età. Per quanto riguarda l’analisi degli archivi dei professionisti e dei collaboratori in gestione separata, si registrano livelli di disuguaglianza decisamente più elevati di quelli relativi ai lavoratori dipendenti, a causa presumibilmente della contrattazione collettiva che per i dipendenti riesce a contenere la dispersione salariale.

I working rich

Un contributo originale del Rapporto annuale di quest’anno consiste nel delineare la composizione dei working rich, qui definiti come i lavoratori che guadagnano cinque volte il reddito mediano annuale, calcolato sul lavoro dipendente privato. Si evince che quasi il 50% dei lavoratori appartenenti a questo gruppo di working rich proviene dai lavoratori dipendenti, il 22,2% dai professionisti, il 18,8% dai dipendenti pubblici e il restante 9,2% dai collaboratori. Sempre sul tema dei top earners, ampiamente dibattuto a livello internazionale nell’ultimo decennio, si conferma un aumento rilevante della soglia necessaria per entrare nel top 0,1% e soprattutto nel top 0,01% della popolazione dei lavoratori: per questo ultimo, la soglia aumenta da 220.000 euro nel 1978 a 533.000 euro nel 2017 (+242%). Ciò suggerisce come negli ultimi decenni la concentrazione degli alti redditi abbia caratterizzato in modo rilevante anche il nostro Paese.

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Da sottolineare come i top earners siano caratterizzati da una fortissima concentrazione geografica, con il 54% del top 0.01% che lavora nella provincia di Milano, seguita a distanza da Roma (16%). Inoltre, si mostra come all’aumentare dei percentili lungo la distribuzione dei salari la quota di donne diminuisce in modo drastico: nel top 10% tale quota si attesta al 23%, nel top 1% si scende al 15% e nel top 0,01% la percentuale di donne è solo del 7,5%.


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