Le motivazioni della Sentenza Google/Vividown: evoluzione del reato di diffamazione nell’era di internet
Il 27 febbraio 2013 sono state depositate le motivazioni della Sentenza Google/Vividown
Prima di addentrarci nelle novità apportate dalla sentenza cerchiamo di approfondire la questione.
Il caso Google/Vividown risulta particolarmente interessante perchè riguarda una potenziale coesistenza di due reati che attengono al diritto di cronaca. Occorre evidenziare che nell’ambito del diritto di cronaca, al fianco del reato di diffamazione, si è spesso invocato anche il trattamento illecito dei dati. Considerato che il primo si verifica ogniqualvolta l’agente, “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”, ciò può avvenire “anche” comunicando dati personali in modo illecito. Ma i due reati non solo non coincidono, sono estremamente diversi.
Un caso di presunta o reale coesistenza dei due reati riguarda un ragazzo down di Torino che nel 2006, veniva vessato ed umiliato da un gruppo di bulli coetanei, che avevano poi caricato i filmati sulla sezione video di un noto motore di ricerca. Le accuse nei confronti dei vertici pro-tempore della società furono di diffamazione aggravata e trattamento illecito di dati personali a fini di profitto.
Il processo su tale vicenda giunse a sentenza di 1° grado nel febbraio del 2010. Il Tribunale di Milano condanno’ a sei mesi di reclusione tre fra dirigenti ed ex dirigenti di Google ritenuti colpevoli di violazione delle norme sulla privacy per non aver impedito la pubblicazione del video. Nelle motivazioni di tale sentenza si legge: “Google Italy trattava i dati contenuti nei video caricati sulla piattaforma e ne era responsabile quindi per lo meno ai fini della legge sulla privacy. L’informativa era del tutto carente e comunque talmente nascosta nelle condizioni generali del contratto da risultare assolutamente inefficace per i fini previsti dalla legge”.
Buona parte della dottrina ritenne che il Giudice avesse condannato Google soprattutto per violazione della disciplina sulla privacy, in quanto la Società non avrebbe avvertito gli utenti in maniera sufficientemente chiara della necessità di prestare attenzione al rispetto della stessa. Sostanzialmente, il motivo della decisione sarebbe un’incompleta ed inidonea informativa. La conseguenza disarmante per buona parte della dottrina fu che le motivazioni di una “così grave” condanna risiedessero tutte in una inidonea informativa ed ancor più “disarmante” sarebbe stato che lo stesso Giudice, poche pagine più avanti, avrebbe poi rigettato la tesi accusatoria (secondo cui Google Italy sarebbe responsabile anche di concorso in diffamazione) scrivendo testualmentenne “pur ammettendo per ipotesi che esista un potere giuridico derivante dalla normativa sulla privacy che costituisca l’obbligo giuridico fondante la posizione di garanzia, non vi è chi non veda che tale potere, anche se correttamente utilizzato, certamente non avrebbe potuto ‘impedire l’evento’ diffamatorio”.
In altre parole, il Giudice si sarebbe contraddetto perché, nonostante l’esistenza e conseguente colpevolezza di Google derivante dall’inidonea informativa che avrebbe prodotto il caricamento illecito del video, avrebbe poi dichiarato il contrario e cioè che, anche se l’informativa sulla privacy fosse stata fornita in modo chiaro e comprensibile, non si sarebbe potuto escludere che l’utente medesimo avrebbe caricato il file video incriminato commettendo il reato di diffamazione.
Io ai tempi della prima sentenza manifestai pubblicamente il mio disaccordo con tale dottrina sostenendo che il ragionamento del Giudice di allora dovesse essere considerato alla luce di una più ampia visione della disciplina di protezione dei dati personali che vede l’informativa non come mero adempimento burocratico, ma come vero e concreto elemento di base per un trattamento corretto. Per il giudice, infatti, l’inidonea informativa venne considerata indice di una totale e più ampia disattenzione nei confronti di tutta la disciplina. Disattenzione resa ancora più lampante dalla ricostruzione dell’insediamento in Italia di Google, che mai si era preoccupata di utilizzare i propri legali italiani anche ai fini della privacy, sostenendo che di tali adempimenti si dovesse occupare Google Inc., senza peraltro indicare a quest’ultima alla legge di quale Paese (visto che opera in 160 Paesi) si facesse effettivamente riferimento.
Sulla presunta contraddizione intendo far notare che il giudice di 1° grado aveva ben evidenziato che non possa considerarsi conforme alla disciplina sulla privacy nascondere l’informativa nell’ambito delle condizioni generali, concretizzando tale comportamento una precisa volontà di minimizzare la disciplina ed anche una mancanza di correttezza nella comunicazione con gli utenti.
Inoltre sempre lo stesso Giudice affermava che per inidonea ed inefficace informativa, si intende proprio significare che quest’ultima non avrebbe mai costretto l’utente a caricare i video con l’attenzione dovuta. In pratica il Giudice del 2010 diceva che il reato di trattamento illecito di dati personali poteva realizzarsi comunque anche qualora il video non fosse stato caricato, trattandosi di un reato di pericolo ed essendo la disciplina privacy di tipo comportamentale non occorre l’evento delittuoso. La sua violazione può realizzarsi semplicemente evitando o sapientemente aggirando le sue prescrizioni, indipendentemente dal verificarsi dell’evento dannoso.
Infatti, la violazione di una misura minima di sicurezza comporta la conseguenza penale indipendentemente dal verificarsi dell’evento dannoso. Ai fini della diffamazione, invece, occorre il concretizzarsi del comportamentoue delittuoso che, nel caso di Google, sarebbe necessariamente derivato dal caricamento del video.
La conclusione, a mio modesto avviso, è che il giudice di primo grado italiano abbia deciso correttamente.
E ora cosa succede con la sentenza di appello? Innanzitutto si deve dire che questa sentenza ha ribaltato il primo grado, considerando innocente la dirigenza di Google.
Le motivazioni della Corte d’Appello, pubblicate il 27 febbraio 2013, individuano tuttavia la responsabilità del trattamento dei dati nell’uploader del video e non nella piattaforma di hosting. Pertanto la violazione non sarebbe in capo a Google, ma ai responsabili della pubblicazione online del video (nello specifico, una studentessa minorenne di Torino).
Determinante nella soluzione presa dalla Corte d’appello il fatto che il Giudice di primo grado avrebbe sbagliato la norma sulla privacy applicabile. Secondo il secondo grado cioè la norma violata era il 161 (omessa o inidonea informativa) Codice Privacy e non il 167 (Trattamento Illecito dei dati). In base a questa qualificazione Google sarebbe stata sanzionabile solo sotto un profilo amministrativo( e non penale.
Ribadisco con fermezza che tale interpretazione è ERRATA. Il Giudice di 1° grado ha ben scelto il 167 (trattamento illecito) perché questo era. Cioè un trattamento di dati illecito perché non consentito dall’avente diritto. Tale consenso (che per legge deve essere informato, dato cioè solo in seguito a delle informazioni necessarie) non è mai pervenuto perché la studentessa di Torino non sapeva fosse necessario a causa della negligente/dolosa condotta di Google, che non informa a dovere i propri utenti. Quanto alla sanzione amministrativa di cui al 161 mi trova d’accordo. Google avrebbe dovuto ANCHE essere sanzionata sotto un profilo amministrativo per inidonea informativa ma tale violazione non esclude il trattamento illecito che a parere mio si è realizzato eccome.