Protagonisti delle sfide che ci attendono
Di Alessia Potecchi
Foto di Gerd Altmann da Pixabay
PREFAZIONE
— Paolo Brambilla —
Nei prossimi anni, l’Italia dovrà affrontare diverse sfide in campo economico e finanziario. Il nostro Paese ha sofferto di una crescita economica lenta rispetto alla media dell’UE negli ultimi decenni. Promuovere investimenti, innovazione e produttività sarà cruciale per accelerare la crescita. Nonostante un leggero miglioramento, rimane elevata la disoccupazione, soprattutto giovanile. Creare opportunità di lavoro di qualità è essenziale per stimolare l’economia e ridurre la fuga di giovani talenti.
Con un rapporto debito/PIL tra i più alti del mondo, l’Italia deve trovare un equilibrio tra la necessità di sostenere la crescita e la riduzione del debito pubblico, rafforzando la solidità del sistema bancario e riformando il mercato del lavoro, il sistema pensionistico e la burocrazia. Occorre massimizzare l’utilizzo efficace dei fondi europei, in particolare del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), per sostenere la ripresa economica e le riforme strutturali.
Come tutti gli altri Paesi, anche l’Italia deve affrontare la sfida della transizione verso un’economia più sostenibile, riducendo le emissioni di carbonio e investendo in energie rinnovabili, pur garantendo la competitività delle imprese.
Tutti questi punti, e molti altri, sono affrontati con competenza da Alessia Potecchi in questo breve saggio. Affrontare queste sfide richiederà una combinazione di politiche economiche mirate, riforme strutturali e una visione strategica a lungo termine. Solo attraverso un approccio coordinato e concertato l’Italia potrà assicurare una crescita economica sostenibile e inclusiva.
Non tutti i partiti politici in Italia oggi stanno remando nella stessa direzione. Le loro posizioni sulle sfide economiche e finanziarie variano significativamente, riflettendo logicamente le loro diverse ideologie e priorità: ma occorre trovare un’intesa per il bene del nostro Paese.
Fratelli d’Italia promuovepolitiche economiche più nazionaliste, con incentivi alla produzione interna e al sostegno delle imprese italiane.Favorisce un approccio critico verso le politiche economiche dell’UE, promuovendo una maggiore sovranità economica con maggiore enfasi su sicurezza, famiglia, identità nazionale, welfare e natalità.
Il Partito Democratico sostiene politiche di stimolo economico, investimenti pubblici in infrastrutture e tecnologie verdi, e incentivi per l’innovazione e la ricerca.Pur riconoscendo la necessità di ridurre il debito pubblico, il PD è favorevole a una gestione graduale che non penalizzi la crescita economica.Promuove infine riforme per migliorare la competitività, tra cui semplificazioni burocratiche e riforme del mercato del lavoro volte a migliorare la sicurezza e la flessibilità.
Forza Italia favorisce la liberalizzazione del mercato, la riduzione delle imposte e il sostegno alle imprese.Quanto alla riduzione del debito preferisce agire attraverso una crescita economica sostenuta da politiche di incentivo fiscale.Promuove riforme pro-business, come la riduzione della burocrazia e la semplificazione del sistema fiscale.
Il Movimento 5 Stelle ha spinto per politiche di reddito di cittadinanza e sostegno alle famiglie. Promuove la digitalizzazione e l’innovazione e ha una posizione più flessibile sul debito, spesso criticando l’austerità e promuovendo politiche espansive per stimolare la domanda interna con una forte enfasi sulla sostenibilità ambientale, sulle energie rinnovabili e sulla mobilità sostenibile.
Italia Viva sostiene politiche di modernizzazione, con enfasi su innovazione, digitalizzazione e infrastrutture.Propone un approccio equilibrato, combinando riforme strutturali con politiche di crescita economica.Spinge per una maggiore efficienza della pubblica amministrazione e del sistema giudiziario.
Azione pone l’enfasi su investimenti in educazione, ricerca e sviluppo tecnologico. Promuove una politica economica basata su competenze e merito.Sostiene la necessità di ridurre il debito pubblico attraverso una crescita economica sostenibile.Propone riforme del mercato del lavoro e del sistema fiscale per aumentare la competitività del Paese.
Sinistra Italiana e Altri Partiti di Sinistra favoriscono politiche redistributive, con un forte focus sul welfare e sulla riduzione delle disuguaglianze tramite una maggiore spesa pubblica per stimolare la domanda e il benessere sociale.Fortemente orientati verso politiche di sostenibilità ambientale, promuovono investimenti in energie rinnovabili e progetti ecologici.
Il futuro dell’Italia?
Nonostante le differenze ideologiche e le specifiche proposte politiche, ci sono alcuni punti di contatto nelle politiche economiche. Tutti concordano sulla necessità di investire in infrastrutture per stimolare la crescita economica e migliorare la competitività del Paese. Questi investimenti includono sia le infrastrutture tradizionali (strade, ferrovie, ponti) sia le infrastrutture digitali. Tutti riconoscono l’importanza di sostenere le imprese italiane. Le misure proposte includono incentivi fiscali, riduzione della burocrazia, e sostegno all’innovazione con un forte accento sulla digitalizzazione e l’innovazione tecnologica come leve per la crescita economica futura.
Tutti esprimono supporto per una transizione ecologica che sia compatibile con la crescita economica e condividono l’idea che sia necessario rendere la pubblica amministrazione più efficiente e meno burocratica. Tutti concordano sull’importanza di utilizzare in modo efficace i fondi europei, in particolare quelli del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), per promuovere la crescita economica, le riforme strutturali e la transizione ecologica.
Questi punti di contatto indicano che, nonostante le divergenze su molte questioni, esistono aree comuni in cui è possibile trovare un consenso trasversale per affrontare le principali sfide economiche del Paese. Leggete con attenzione le considerazioni esposte da Alessia Potecchi in questo saggio: è facile trovare molti argomenti costruttivi al di là delle semplici critiche ai punti dolenti del sistema.
Paolo Brambilla
Consigliere dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
Direttore responsabile di Trendiest Media Agenzia di stampa
PREMESSA
La grande crisi della economia che ha caratterizzato questi ultimi anni si è arrestata e si vedono finalmente dei segnali di ripresa seppur timidi. Vanno colti, sostenuti, incrementati. L’Europa e l’Italia devono scegliere con decisione e coerenza la strada dello sviluppo e devono andare incontro alle nuove sfide cogliendone le opportunità e giocando un ruolo da protagonisti perché i cambiamenti che ci attendono non sono più rinviabili. Oggi è il tempo in cui non dobbiamo arrenderci, dobbiamo rimboccarci le maniche, dobbiamo avere passione, determinazione, conoscenza e l’ambizione di essere noi oggi protagonisti. Non possiamo tirarci indietro perché dobbiamo essere all’altezza, dobbiamo saper rispondere alle domande e alle inquietudini delle donne e degli uomini di oggi, che sono donne e uomini complessi che vivono una realtà sempre più complessa e in cambiamento. Non tiriamoci indietro perché il futuro che ci attende è lo sfondo su cui noi saremo impegnati con gli strumenti e le conoscenze che oggi abbiamo per poter operare e mettere al centro l’individuo come persona unica, tornare ad un’economia e a una finanza delle persone. Quando pensiamo al risparmio, al fisco, alla previdenza, alla transizione ecologica e digitale dobbiamo farlo pensando realisticamente alle persone perché questi cambiamenti hanno in primis una forte valenza sociale di cui ci dobbiamo occupare.
E’ necessario realizzare un profondo cambiamento che consenta di rendere più coesa l’Europa e consenta anche di fare in modo che la ripresa sia sostenibile sul terreno ambientale, sul terreno occupazionale, sul terreno dei diritti riportando al centro dell’attenzione i bisogni delle persone. La digitalizzazione, l’innovazione tecnologica, la diffusione dell’intelligenza artificiale devono assolutamente essere indirizzate alla riduzione delle diseguaglianze, alla valorizzazione della solidarietà e alla sostenibilità dello sviluppo economico e sociale. Non dimentichiamo che la crisi dovuta alla pandemia che abbiamo vissuto non è stata soltanto una crisi economica e sanitaria ma anche e soprattutto una crisi di carattere sociale che ha aumentato la povertà.
Dopo la caduta del Muro di Berlino l’Europa ha abbandonato la linea sociale di Jacque Delors ed è via via scivolata in una situazione nella quale ha finito per dominare la finanziarizzazione, la globalizzazione, il mercato senza regole. I risultati sono dinnanzi agli occhi di tutti, il sistema di welfare che era stato conquistato e che aveva caratterizzato la seconda metà del secolo passato è stato messo in crisi, in molti paesi europei è stato praticato il Dumping Sociale che ha pesantemente rimesso in discussione le conquiste ottenute dai sindacati per valorizzare il mondo del lavoro, l’Europa si è divisa non solo su un utilizzo spregiudicato del Dumping Sociale per vincere la concorrenza sulla pelle dei lavoratori, ma si è praticata una politica fiscale che ha diviso l’Europa in paradisi fiscali come ad Es. l’Olanda, il Lussemburgo, l’Austria, l’Irlanda ecc e inferni fiscali tra i quali è precipitato il nostro paese.
Stiamo vivendo una fase di importanti trasformazioni: la crisi climatica, le guerre alle porte dell’Europa, la frammentazione geopolitica e geoeconomica, la rivoluzione tecnologica e l’Intelligenza Artificiale stanno cambiando l’economia mondiale, le catene globali del valore, i flussi commerciali e di investimento. Dobbiamo decidere quale Europa vogliamo e su quali valori vogliamo investire, la partita si giocherà soprattutto sui temi economici, il fisco, i programmi finanziari, il completamento del Mercato Unico Bancario il tema della pace. L’Unione Europea è il luogo dove esprimere e realizzare l’interesse nazionale, dove l’Italia deve dialogare con gli altri grandi paesi che si pongono sulla frontiera più avanzata dell’integrazione. Dobbiamo chiederci se desideriamo costruire davvero una Europa Sociale e della solidarietà che non arretri rispetto a quegli strumenti di solidarietà economica che sono stati messi in campo in questi anni con delle decisioni di carattere storico per fare fronte alla tragedia del Covid che ha colpito in manera simmetrica tutti gli stati, se vogliamo un’Europa che attui in maniera permanente investimenti comuni, che replichi i programmi che sono stati realizzati in questi anni e ragioni come una famiglia unica, cambiando davvero visione e mentalità.
Rinvigorire il modello sociale europeo per costruire un’Europa che abbandoni definitivamente l’austerità e gli egoismi nazionali per riconoscersi in una comunità di destino con la costruzione del cosiddetto pilastro sociale dell’Unione che garantirà passi in avanti per rimettere al centro la persona, il lavoro e cogliere le migliori opportunità della transizione verde e digitale, che ponga attenzione alle donne grazie al rafforzamento del dialogo sociale e della contrattazione collettiva. Una Europa sempre più sinergica sui tanti punti che ancora mancano e che voglia rispondere e impegnarsi con una sola voce sulle grandi questioni di oggi a cominciare dai processi di pace dinnanzi ai quali occorre spingere e marciare con forza tutti nella stessa direzione. Serve molto più coraggio, ritrovare la strada che ha dato vita al Next Generation EU. Non possiamo permettere che questa esperienza termini, una decisione storica lanciata dal più importante piano di investimenti comuni della storia europea. Le destre nazionaliste si oppongono con forza a questi programmi di solidarietà, è nella loro storia e nel loro DNA, vorrebbero tornare indietro, vorrebbero arretrare e sono in forte imbarazzo dinnanzi a queste decisioni.
È necessario rendere strutturali i programmi di investimento comuni introdotti come risposta alla pandemia, tali programmi non devono essere considerati solo un fattore emergenziale ma devono costituire la spinta per mettere in campo nuove risorse per favorire investimenti comuni sulla transizione ecologica e digitale e sui beni pubblici europei. La governance economica deve contribuire fattivamente a costruire un’Europa sociale, democratica e sostenibile, che sostenga decisamente le persone e le realtà interessate alle grandi trasformazioni della conversione ecologica e digitale. È urgente puntare alla creazione di un fisco comune e questo è necessario per costruire le basi sociali dell’Unione e superare un’impostazione che dà ancora prevalenza in particolare ai contributi nazionali. Non è facile, è un percorso complesso e delicato l’armonizzazione di 27 sistemi tributari diversi ma è un cammino che è necessario percorrere con competenza, serietà e lungimiranza. Un bilancio che corrisponde all’1% del PIL europeo è del tutto insufficiente alle sfide cui l’Unione è chiamata. Non è più pensabile che esistano paradisi fiscali all’interno dell’UE o Stati che applicano tranquillamente il Dumping Sociale facendosi concorrenza, le tasse vanno pagate lì dove si realizzano i profitti.
Vanno eliminate con programmi seri le disuguaglianze territoriali, geografiche e generazionali. Uno degli obiettivi della prossima legislatura deve essere il completamento e la modernizzazione del mercato interno, è una priorità fondamentale per rafforzare il modello sociale e produttivo europeo. In questo contesto occorre introdurre un meccanismo comune di contributi provenienti dagli aiuti di stato, da indirizzare a investimenti per progetti pan-europei e favorire parità di condizioni tra le imprese. Bisogna costruire un mercato interno che sia efficace, costruttivo e che sappia competere in maniera fattiva con i soggetti economici internazionali. Va rafforzato il completamento dell’Unione di capitali, per consentire alle imprese di avere finanziamenti privati alle stesse condizioni e dell’Unione Bancaria con un meccanismo di protezione dei depositi a livello europeo e un fondo di liquidità per garantire la stabilità finanziaria.
Abbiamo esigenze di iniziative di cambiamento, ci muoviamo a passo molto lento, il fattore tempo è importante dobbiamo stabilire delle priorità, la Governance per esempio, bisogna trovare delle soluzioni per modificare gradualmente un sistema in cui il Parlamento conta poco e l’unanimità blocca le decisioni e bisogna fare dei passi in avanti per evitare i nazionalismi dei singoli paesi, gli egoismi di parte, le chiusure che sono ancora molto forti. Bisogna recuperare la solidarietà, la coesione, lo spirito di iniziativa comune, gli aspetti di carattere sociale, l’indebolimento del welfare può creare delle debolezze pericolose, dei fattori negativi, dobbiamo con maggiore forza testimoniare e realizzare una nostra identità e riuscire a essere competitivi per non soccombere con le altre potenze che preponderanti si affacciano sulla scena.
Se è vero, infatti, che l’Europa in questi anni è stata in grado di dare risposte positive su diversi temi, è altrettanto vero che è fondamentale fare un passo avanti per permettere all’Unionedi agire con più forza senza essere costretta in trattative infinite che proprio nel diritto di veto degli stati trovano il loro naturale sbocco. Il superamento dell’unanimità permetterebbe anche l’allargamento e il rafforzamento dell’Unione Europea, con l’ingresso di altri Paesi, che da tempo lo chiedono, ma che comprensibilmente attendono anche per il timore che uno solo di questi possa bloccare decisioni già avviate e su cui si è già giunti ad un accordo. Occorre riscoprire quello slancio dei padri fondatori per giungere ad un’autentica unità politica e non solo economica dell’Ue. Solo così sarà possibile lavorare e costruireun’Europapiù unita e più forte e solo questo può e deve essere l’obiettivo futuro.
L’Italia in tutto questo deve giocare una parte importante, da protagonista ed essere all’altezza delle sfide che ci attendono. A tutto questo dobbiamo rispondere introducendo un programma serio di Riforme, ce lo chiede l’Europa ma il nostro paese ne ha bisogno perché le Riforme sono necessarie per continuare a operare in prima fila e a svolgere un ruolo fondamentale nel contesto europeo e globale, non è più tempo di attendere se vogliamo guardare avanti e affrontare il futuro con consapevolezza e responsabilità.
LAVORO
Occorre una Riforma del Lavoro, il mondo è cambiato i soggetti sono diversi, non si può pensare di proseguire la politica del lavoro secondo le abitudini, le regole, le politiche del passato. Prima l’azione prevalente del sindacato era di fare in modo che una parte crescente dei profitti delle imprese andasse a beneficio dei lavoratori e oggi bisogna porsi il problema della innovazione tecnologica, dell’intelligenza artificiale, degli algoritmi, questi strumenti devono permettere di valorizzare il lavoro, di dare la possibilità ai lavoratori di crescere in conoscenza e professionalità, non si può accettare che si rafforzi una diseguaglianza tra chi ha la conoscenza delle innovazioni tecnologiche e chi ne è escluso. Occorre immaginare un rapporto di lavoro nuovo dove accanto ad un conflitto che sempre ci sarà tra lavoratore e imprenditore si allarghi uno spazio di collaborazione, di valorizzazione dei lavoratori, bisogna investire sul sapere delle persone e anche sulla loro formazione. È evidente che il mondo del lavoro è mutato, la Banca D’Italia da anni denuncia che non solo sono andate all’estero molte aziende italiane ma anche un numero sempre più crescente di giovani laureati che vanno a cercare lavoro fuori dal nostro paese. Un tempo emigravano i braccianti, chi lavorava nelle miniere o nelle acciaierie, oggi vanno invece via ragazze e ragazzi colti e preparati che vanno a fare ricerca nelle aziende all’estero perché qui da noi non hanno opportunità adeguate e soddisfacenti.
La Banca d’Italia ci dice anche che il maggior numero di laureati in Italia sono donne, le donne portano maggiormente a compimento il percorso di laurea rispetto agli uomini e con votazioni molto maggiori. Questo per sottolineare come le donne siano una risorsa che va impiegata e valorizzata perché è un valore aggiunto importante per la crescita economica e sociale del paese. Tutto questo richiede collaborazione, partecipazione, flessibilità, esclude un rapporto che si basi sulla precarietà e sul nomadismo dei lavoratori. Occorre ripensare i rapporti tra impresa e sindacati, bisogna immaginare un rapporto di lavoro che utilizzi la innovazione per favorire la competitività dell’azienda e il ripristino dell’ascensore sociale. Bisogna immaginare nuove forme di rappresentanza del sindacato e nuove modalità di contrattazione e una politica economica del governo idonea a sostenere questo cambiamento.
Dobbiamo occuparci dei salari che sono i più bassi d’Europa, occorre spingere perché tutti contratti siano rinnovati al fine di aumentare il valore reale dei salari. Gli stipendi dei lavoratori italiani sono fermi. Negli ultimi 30 anni, sono cresciuti solo dell’1%, a fronte del 32,5% in media nell’area Ocse. Dobbiamo contrastare senza sosta la precarietà che è il motivo principale dei bassi salari.
Gli incentivi alle imprese devono essere dati in maniera accurata e non a pioggia, vanno dati a chi incentiva la produzione nel paese e a chi valorizza e tutela il lavoro e i lavoratori e dobbiamo vigilare perché si intervenga maggiormente sugli extra profitti, i soldi vanno presi lì dove sono. Il Governo in carica ha fatto un vero e proprio pasticcio con la tassa sugli extra profitti delle banche che è questione assai delicata che non si può affrontare con una boutade e improvvisazione dalla sera alla mattina, si è rischiato di avere delle ripercussioni serie sui mercati e sulla fiducia degli investitori e si è dovuto fare in fretta marcia indietro, ci vuole grande attenzione e competenza.
Bisogna insistere sul Salario Minimo che non ha alcun costo. Vengono stabiliti i requisiti per un reddito dignitoso con un salario minimo legale o la contrattazione collettiva tra lavoratori e datori di lavoro. È un passo importante perché la richiesta come in altre occasioni viene dall’Europa e si pone sulla strada della sua unità e sinergia. L’Europa ci esorta, nella piena libertà, all’introduzione di un salario minimo che è in vigore già in 21 paesi su 27 dell’Unione. In questo contesto va data massima importanza alla contrattazione autonoma delle parti sociali tenendo come punto di riferimento i trattamenti economici complessivi (Tec) dei contratti di lavoro maggiormente rappresentativi. Sarebbe poi utile poter stabilire dei salari minimi per quei settori dove le buste paga sono più basse e vi è anche poca contrattazione insieme al completamento e alla velocizzazione dei rinnovi dei contratti scaduti perché ovviamente la contrattazione va salvaguardata e incentivata per aumentare i salari: è lo strumento principale e deve essere rafforzato. Tutto questo per ridurre anche la presenza di contratti pirata che colpiscono soprattutto donne e giovani lavoratori. Ci sono 780 mila lavoratori senza contratto nazionale o soggetti a contratti pirata. A questi vanno aggiunti quelli che non rientrano sotto la tutela di Cgil Cisl e UIL e si arriva a ben 1,2 milioni di lavoratori. Ma va sottolineato che anche in alcuni settori dove è presente la contrattazione nazionale abbiamo dei contratti firmati al di sotto delle 9 euro all’ora e anche sotto le 8 e le 7 euro, questo non è più lavoro ma pieno sfruttamento. Per esempio, gli operai agricoli, i panificatori industriali che prendono 5,48 euro all’ora con contratto firmato dalle confederazioni sindacali. A questi si aggiungono i contratti semi clandestini e altre forme contrattuali con retribuzioni da fame perché di questo si tratta e quando un lavoratore e una famiglia non arrivano alla fine del mese e rischiano una vita non dignitosa significa che non sono più liberi, perdono la loro libertà.
Bisogna attuare in fretta dei provvedimenti concreti per contrastare senza sosta le morti sul lavoro. I decessi sul lavoro sono un problema drammatico ed intollerabile, una piaga del nostro paese che dobbiamo contrastare senza sosta. Va aperto un confronto continuativo con le parti sociali finalizzato a negoziare un accordo che metta al centro gli investimenti sui temi della salute e della sicurezza sul lavoro. Bisogna rafforzare la vigilanza e il controllo, assumere ispettori e medici del lavoro, si deve investire sulla ricerca. È stato chiesto dai sindacati che nel PNRR venga affermato il principio che: qualunque azienda pubblica o privata usufruisca di sostegni del fondo europeo deve essere vincolata a incrementi netti di occupazione, giovanile e femminile, al rispetto dei contratti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative e a investimenti sul tema della salute e della sicurezza sul lavoro. Le continue innovazioni tecnologiche richiederanno maggiori investimenti dal punto di vista della sicurezza e della formazione permanente. Va modificato il modo di fare impresa, non si può accettare che al centro ci sia sempre e a qualunque condizione il massimo profitto, vanno regolamentati i sistemi degli appalti e dei subappalti perché non è accettabile che vengano applicati e poi nessuno risponda in merito a quanto succede. E ‘una battaglia che va portata avanti senza sosta e su cui occorre lavorare in sinergia con le altre realtà. Il lavoro sostiene il futuro, la dignità e la libertà delle persone e deve essere la sfida principale del nostro impegno in un continuo e costruttivo confronto con le parti sociali.
Senato della Repubblica Sala Capitolare Presentazione libro di Flo Carniti: “Pierre Carniti: Tentare l’impossibile per fare il Possibile”.
Lucca Inaugurazione Mostra Carlo Carli
FISCO
La partita su quale paese vogliamo si giocherà molto sulla Riforma Fiscale. La politica fiscale deve essere intelligente. Deve rafforzare la capacità di spesa, deve incrementare i consumi. L’economia torna a girare se si sostiene la domanda. Più consumi significa più produzione. Più produzione vuol dire più lavoro, più occupazione. Le tasse in Italia sono eccessive. Insopportabili. Incompatibili con la crescita. L’emergenza pandemica e le conseguenze di carattere politico, economico e sociale portate dal conflitto in Ucraina e da quello in Medio Oriente, in apparenza sembrano aver spostato temporaneamente l’attenzione nel nostro Paese sul tema di interventi radicali in tema di fisco, ma le quotidiane lamentele che vengono rivolte al sistema impongono delle riflessioni sulla necessità di modernizzare un impianto tributario che è in piedi da più di cinquanta anni, da quando cioè, nel 1972, veniva varata in Italia la riforma tributaria. Infatti, dopo anni di studi e proposte per rinnovare il vecchio sistema tributario, il 9 ottobre 1971 fu emanata la legge 825 che introduceva le norme necessarie per la partecipazione “di ognuno in ragione della propria capacità contributiva e della progressività” al mantenimento dello Stato. Nell’ottobre del 1972 furono pubblicati i primi diciannove decreti attuativi della riforma, entrati in vigore il 1° gennaio successivo: nascevano l’imposta sul valore aggiunto e l’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili, furono modificate le imposte di registro, le successioni, ipotecarie e catastali, il bollo, il contenzioso tributario, l’imposta comunale sulla pubblicità e diritti sulle pubbliche affissioni, l’imposta sugli spettacoli e le tasse sulle concessioni governative.
Le disposizioni sulle imposte dirette, invece, entrarono in vigore all’inizio del 1974 e le vecchie imposte “reali” (ricchezza mobile, fabbricati, terreni, redditi agrari) e “personali” (complementare sul reddito, imposta di famiglia), furono sostituite con le nuove sul reddito delle persone fisiche, delle persone giuridiche e locale sui redditi: nascevano così l’IRPEF, l’IRPEG e l’ILOR. L’organica raccolta di queste disposizioni fu fatta nel 1973 con appositi decreti del Presidente della Repubblica, raccogliendo le norme in materia di accertamento e le norme sulle agevolazioni tributarie, e rivedendo le norme sulla riscossione, sui servizi relativi e sugli estimi e classamento catastali e di terreni e fabbricati.
Sono trascorsi più di cinquanta anni nel corso dei quali il nostro Paese è radicalmente cambiato: siamo aumentati di dieci milioni di abitanti, si è trasformata la realtà economica, è cambiata la composizione sociale ed economica, con più pensionati che lavoratori attivi, e tra i lavoratori attivi sono più gli autonomi rispetto ai lavoratori dipendenti, l’emigrazione italiana oggi è raccontata da giovani che vanno all’estero con il computer, portandosi dietro saperi e conoscenze maturate in Italia, con la speranza che vengano utilizzate e valorizzate altrove. Nel quadro sinteticamente rappresentato di cambiamenti che hanno interessato la società italiana l’impianto fiscale è rimasto sostanzialmente lo stesso dalla sua nascita, con alla base la distinzione tra redditi delle persone fisiche e redditi delle persone giuridiche.
Anche se nel corso degli anni si sono succedute proposte di riforma, concretamente sono stati fatti alcuni interventi di semplificazione: l’introduzione del modello 730 negli anni Novanta ha rappresentato una novità importante, così come importanti sono state la nascita dei CAF, gli interventi per la misurazione del reddito da lavoro autonomo, come è stato nel caso della minimum tax, affinata progressivamente fino a costituire la base degli studi di settore e l’approvazione in Parlamento dello Statuto del Contribuente. Ma una vera e propria riforma fiscale non è stata più realizzata, nonostante le varie “deleghe fiscali” di cui si parla in ogni legislatura, compresa l’ultima, che, al momento, ha partorito soltanto una riduzione delle aliquote IRPEF da 5 a 4.
Un intervento riformatore è necessario per affrontare un problema che si è incancrenito nella nostra società e nella nostra economia: l’evasione fiscale. Fanno impressione le cifre che ogni anno vengono diffuse da istituzioni e istituti di ricerca specializzati ai quali vanno aggiunti i circa 1.000 miliardi accertati dal 2000 a oggi, non ancora riscossi e difficilmente riscuotibili in futuro, nonostante i vari provvedimenti di rottamazione e di saldo e stralcio intervenuti nel corso degli ultimi anni, e che raccontano di un “magazzino” di 130/140 milioni di cartelle da riscuotere.
Abbiamo dunque bisogno di una Riforma Fiscale vera e complessiva e non stiamo per nulla andando in questa direzione, un fisco intelligente che accentui la progressività, chi ha di più deve dare di più, con la riduzione certa ed esigibile delle tasse sulle imprese, sull’innovazione, sulla formazione, sul lavoro per i giovani, sulle famiglie. Un progetto serio scaglionato nei tempi con una politica accorta di sviluppo, accompagnata da tagli agli sprechi e da una mirata politica di contrasto alla elusione e alla evasione fiscale. Un fisco che vada incontro ai redditi medio bassi che sono quelli che stanno soffrendo di più la crisi energetica e l’inflazione. Bisogna che avvenga un vero processo di semplificazione e razionalizzazione e che soprattutto le norme dello Statuto del Contribuente vengano applicate rinunciando in termini definitivi a misure di retroattività delle norme.
Ci dobbiamo rendere conto che dobbiamo superare definitivamente ogni contrapposizione tra amministrazione finanziaria e contribuenti, è questo necessario per svolgere un’azione concreta di contrasto all’evasione fiscale. Non si tratta di considerare le tasse bellissime o bruttissime, le tasse sono l’importante e fondamentale leva costituzionale e non per nulla in Costituzione si parla di tasse progressive, per garantire i servizi pubblici primari ai cittadini, a partire da sanità e scuola pubblica adeguate e di qualità e per permettere lo sviluppo economico e sociale del paese che accorci le diseguaglianze e promuova la giustizia sociale. Bisogna evitare la frammentazione e la disomogeneità del nostro sistema tributario che è iniqua, è vessatoria, a parità di reddito le tasse devono essere le stesse. Do qualche dato.
L’IRPEF (l’imposta sui redditi delle persone fisiche da cui arriva un gettito di 175,17 miliardi considerando anche addizionali comunali e regionali) presenta profonde anomalie e asimmetrie. Quasi la metà degli italiani, ben il 47% addirittura non dichiara redditi, tra coloro che versano è l’esiguo 13,94% dei contribuenti con redditi dai 35.000 euro in su a corrispondere da solo ben il 62,52% dell’imposta sui redditi delle persone fisiche. In sostanza poco meno dei due terzi dell’imposta a carico grava totalmente su chi dichiara da 35.000 euro di redditi a salire. Non si può accettare che poco più del 13% della popolazione si faccia carico della quasi metà degli italiani che non dichiarano redditi e trova poi benefici in un groviglio di agevolazioni e sostegni e a cui bisognerebbe mettere mano ma non lo si è fatto ancora in maniera seria. Questo 13% di persone guadagna dai 35.000 euro lordi in su e quindi non può nemmeno beneficiare del taglio del cuneo perché è considerato troppo ricco e non può difendersi dall’inflazione nemmeno quando giunge alla pensione. Noi dobbiamo batterci perché i lavoratori devono essere tutti uguali sul fronte della tassazione, inoltre si prosegue nella disomogeneità del Sistema Tributario aggravando il mancato pagamento dell’IRPEF e la cosiddetta iniquità orizzontale di un fisco in cui ormai la progressività riguarda solo dipendenti e pensionati.
L’azione di contrasto alla evasione fiscale deve fare molta prevenzione, deve rafforzare le collaborazioni tra lo Stato e le città. Il problema dell’evasione è un problema economico, sociale e politico al quale purtroppo non si riesce a dare soluzione e che impatta fortemente sull’intero sistema produttivo e sociale del nostro Paese. Produttivo, perché l’evasione crea concorrenza sleale nella realtà economica, sociale, perché chi evade non solo non paga le tasse, ma beneficia di aiuti e agevolazioni che dovrebbero andare a chi realmente ne avrebbe diritto. E soprattutto genera sfiducia e lontananza verso le istituzioni.
È necessaria la semplificazione delle norme, l’utilizzo dei sistemi informatici, banche dati, digitalizzazione, tracciabilità delle operazioni finanziarie, l’uso dei proventi della lotta all’evasione deve essere in gran parte utilizzata per diminuire le tasse. Così è possibile attuare il famoso principio, “è possibile ridurre le tasse se tutti le pagano.” Vanno ridotte le disuguaglianze che favoriscono il lavoro autonomo e la politica finanziaria. Troppi i balzelli nel nostro sistema fiscale. Innumerevoli le tasse. Complicato il ricorso alla giustizia amministrativa. Inadeguata la riscossione dei tributi, sono addirittura oltre 950 i miliardi di euro che la ex Equitalia ha cumulato incapace di riscuoterli. Insomma, occorre rimboccarsi le maniche. Si deve senza indugi procedere alla riforma del nostro sistema fiscale, il Governo non sta andando nella giusta direzione. Bisogna salvaguardare e introdurre il principio che a parità di reddito le tasse devono essere le stesse. Nel nostro paese, invece, si persegue il metodo della diversificazione del tipo di tassazione e gli esempi sono il regime forfettario per le Partite IVA che è stato alzato a 85.000 euro e il Concordato Preventivo Biennale che in un primo momento ne limitava l’utilizzo ai contribuenti che presentavano un indice 8 di affidabilità fiscale per quanto riguarda gli Isa ma poi ha esteso il concordato a tutti anche a chi non arriva al punteggio di 8, il massimo è 10. Si è anche introdotto un tetto del 10% come massimo che può venire proposto al contribuente rispetto al reddito dell’anno preso a riferimento e una Flat Tax che varia dal 10% al 15% sul reddito incrementale. Quindi tutti i dati di cui dispone il fisco, non solo gli Isa, non servono più a nulla, anzi, si incentiva l’evasione arrivando alla contraddizione più estrema: essere affidabili penalizza, perché così il fisco partirà da un dato più corretto, mentre invece chi è evasore e acconsente a pagare qualche cosa in più, si protegge da ulteriori verifiche che lo porterebbero fuori regola. Inoltre, il contribuente può accettare la proposta che gli viene fatta entro metà ottobre dell’anno in corso, cioè quando ha potuto valutare se per lui è conveniente oppure no. La proposta dura un anno e il contribuente può uscire successivamente senza alcuna penalizzazione nel caso non risultasse più conveniente. Un incentivo all’evasione che assicura a chi aderisce di mettersi al riparo dall’essere considerato fuori regola con il fisco in un momento in cui i dati indicano che gli autonomi evadono in media il 70% di ciò che fatturano.
Da noi l’evasione continua a veleggiare su livelli impressionanti, nel triennio 2018-2020 la media di tasse e contributi evasi ha superato i 96 miliardi di euro, è vero che nel 2020 è stato registrato un sensibile miglioramento che ha portato il Tax Gap a 86 miliardi ma se si guarda alla sola IRPEF si nota che il miglioramento è stato marginale ed è anche imputabile al fatto che gran parte delle piccole partite IVA non paga più l’IRPEF ma l’imposta sostitutiva del regima forfettario. Occorrerebbe una seria politica dei redditi per fare fronte alle difficoltà che costantemente fronteggiano i lavoratori dipendenti e pensionati tassati da sempre fino all’ultimo centesimo e che pagano anche per gli altri contribuenti.
A mio parere non vedo la necessità di rafforzare il sistema tributario con una nuova tassa patrimoniale. Bisognerebbe invece, come sottolineavo prima, fare un discorso di maggiore equità a parità di gettito che va realizzata con una riforma di carattere complessivo e non parziale. Nel nostro paese esiste già una consistente imposizione sui patrimoni che è anche molto aumentata durante gli anni della crisi. I patrimoni mobiliari e immobiliari sono già sottoposti a tassazione in Italia, siamo al 2,7% del PIL, che rappresenta una percentuale superiore alla media europea. Quello che occorre è una revisione di questo tipo di tassazione che spinga verso l’equità, con un accurato aggiornamento e revisione delle rendite catastali così da poter versare le imposte in base al vero valore degli immobili e andando a superare la notevole regressività che vi è in questi versamenti cioè il fatto che è penalizzato chi ha di meno rispetto a chi possiede di più. A tale proposito si potrebbe fare una riflessione sulla proposta che era stata avanzata da Vincenzo Visco che consiste nel mettere in campo un prelievo progressivo sul patrimonio allo stesso modo di quello che viene posto sui redditi, prevedendo un’ampia deduzione di base così da lasciare esenti i piccoli patrimoni, che comprenda anche la tassazione sui redditi prodotti dagli stessi patrimoni. Questo permetterebbe di effettuare e ottenere una redistribuzione e non si arriverebbe a concepire un’imposta straordinaria destinata solo a chi è molto ricco che rappresenta comunque una platea limitata, ma si creerebbe un prelievo ordinario sui patrimoni, anche perché la distribuzione dei cosiddetti grandi patrimoni è molto più concentrata rispetto ai redditi. Banca D’Italia ci dice che il 5% delle famiglie italiane più ricche possiede il 46% della ricchezza netta totale.
La risposta alla Riforma del Fisco non è la Flat Tax. La Flat Tax è l’imposta ad aliquota proporzionale applicata, senza alcune eccezioni, a tutti i redditi dei contribuenti. La Flat Tax cioè si basa su un’aliquota unica sul reddito in sostituzione delle quattro vigenti oggi. La riduzione delle tasse così congegnata non è eguale per tutti. In sostanza rinnega il principio costituzionale della progressività (paga di più chi ha di più) e lo sostituisce con quello della proporzionalità (ognuno paga una percentuale identica indipendentemente dall’entità del suo reddito). Invece di tagliare le tasse alle famiglie, sostanzialmente le riduce in modo rilevante per i redditi alti. È un sistema di tassazione incostituzionale perché il dovere di contribuire al sostentamento della spesa pubblica è metafora di un più complessivo dovere che ha alla sua base il principio della solidarietà come recita l’articolo 2 della Costituzione. Con la Flat Tax i redditi bassi non hanno alcun beneficio, mentre chi ci guadagna sono i redditi alti, che poi solo in minima parte reinvestiranno questi soldi in ciò che produce ulteriore ricchezza e crescita. I benefici dell’operazione, per capire, andrebbero per un terzo al 5% del totale dei contribuenti cioè a quelli con i redditi più alti. Ancora, la Flat Tax è difficilmente realizzabile anche dal punto di vista delle risorse, ha dei costi enormi che farebbero aumentare ulteriormente il nostro già altissimo debito pubblico. Inoltre, è un sistema di tassazione che non spinge all’assunzione del rischio e frena investimenti e occupazione che verranno fatti solo nel caso ci sia la assoluta certezza di avere dei guadagni consistenti. Se non si vorrà aumentare a dismisura il debito, con il conseguente rischio di rialzo dei tassi, a fare le spese di questa situazione che va a crearsi con questo sistema fiscale saranno tutti gli altri cittadini che vedranno tagliati e ridimensionati i servizi principali come la scuola, il welfare e la sanità per andare a compensare il minor gettito nelle casse dello Stato. Si dice con sussiego che ci sono molti Paesi che hanno adottato la Flat Tax. Non è un esempio convincente. Senza ironia, ecco un campionario dei Paesi che hanno la Flat Tax: Giamaica, Estonia, Lettonia, Lituania, Russia, Ucraina, Romania, Bulgaria, Mongolia, Mauritius, Macedonia, Albania, Kazakhistan, Bielorussia, Tobago ecc.. Non figurano certamente nella lista né ci pensano la Germania, il Regno Unito, la Francia, gli Stati Uniti, il Giappone.
INDUSTRIA e TRANSIZIONE ECOLOGICA
L’Europa ha preso degli impegni concreti in tema di transizione ecologica dandosi l’obiettivo del 2050 per giungere a diventare il primo continente a raggiungere la neutralità climatica. Il Green Deal europeo ci porta per forza di cose ad apportare cambiamenti importanti nel nostro modo di lavorare, di consumare, di comunicare, di produrre, di viaggiare, di relazionarci. Questo è un processo complesso che la politica deve gestire tenendo insieme la sostenibilità ambientale e la coesione sociale.
Ancora oggi, pur a fronte di una caduta della produzione nazionale di autoveicoli, il settore automotiveha, nel suo complesso, un peso molto importante nell’economia italiana. Do qualche dato significativo: L’industria dell’auto vale in Italia un fatturato di 93 miliardi di euro, pari al 5,6% del Pil e nel solo comparto della fabbricazione di autoveicoli, operano oltre 2mila imprese e 180mila lavoratori e si realizza il 7% delle esportazioni metalmeccaniche nazionali per un valore di 31 miliardi di euro. In quest’ambito, dove gli effetti della crisi pandemica hanno particolarmente pesato sulla domanda e sulla produzione di autoveicoli, si sommano anche i pesi dei ritardi negli approvvigionamenti di componentistica elettronica e la rivoluzione elettrica. L’Unione europea ha previsto entro il 2035 lo stop alla vendita di nuove auto che producono emissioni di carbonio, confermata anche dal Governo italiano. Questi cambiamenti devono essere accompagnati da provvedimenti concreti per evitare ricadute occupazionali pericolose, si stima infatti la perdita di 73.000 posti di lavoro e l’aggravarsi della crisi sociale.
Aggiungo che lo scenario è drammaticamente cambiato con l’invasione russa dell’Ucraina, la guerra in Medio Oriente. La sicurezza nazionale ed europea deve diventare fattore centrale nelle scelte di politica energetica e industriale e devono farci riconsiderare alcune scelte strategiche tenendo conto di quello che sta accadendo. La Transizione Green ci pone davanti a questioni nuove perché se da una parte produce nuovi posti di lavoro dall’altra porta anche un calo dell’occupazione nei settori ad alta intensità energetica e quindi la necessità di un adeguamento importante su queste questioni e una nuova riorganizzazione globale di interi settori. Occorre valorizzare e incentivare il nostro comparto manifatturiero che ha delle eccellenze importanti e di valore ed evitare che le fasce più deboli paghino il prezzo più alto rispetto a questi processi per quanto riguarda l’occupazione, il reddito e la sicurezza sociale.
Dobbiamo agire innanzitutto in ambito europeo con gli strumenti sociali che guardano in lunga prospettiva e che affrontino il tema della transizione ecologica sul lavoro. Sul piano italiano va definito un patto nazionale per la transizione ecologica e digitale adattandolo anche ai singoli territori dove sono presenti caratteristiche particolari ed esperienze e realtà diverse che vanno gestite nel modo giusto per puntare ad una sinergia per quanto riguarda le politiche industriali in un momento storico e strategico con l’obiettivo che la transizione non diventi deindustrializzazione e per puntare a processi di sviluppo di attività di carattere innovativo e di rilancio. Occorrono degli interventi strutturali per rendere competitivo l’intero settore dell’auto e per incentivare l’acquisto dei veicoli elettrici.
Certamente la transizione ecologica è un processo non più eludibile né rinviabile ma vanno introdotte prospettive di lavoro ed iniziative politiche condivise per affrontare un momento storico nel quale le opportunità di sviluppo si affiancano a gravi rischi. Bisogna studiare gli impatti e le conseguenze specifiche dei cambiamenti, gestire tutte le crisi industriali già aperte, puntare ad investimenti per sostenere la domanda verso le tecnologie che sono compatibili con il Green Deal, promuovere investimenti a sostegno dell’occupazione e della ricerca per valorizzare le eccellenze e le competenze italiane, puntare ad ammortizzatori sociali per gestire la transizione e incrementare il programma di formazione e di accompagnamento in questa nuova fase.
È un lungo e complesso lavoro ma dobbiamo essere pronti e non arrivare impreparati, la transizione ecologica e digitale sarà una grande opportunità per il nostro paese per riportare al centro dell’agenda politica le politiche industriali e una sfida per l’Italia e per l’Europa per mettere in campo strumenti innovativi per gestire nel modo migliore la ricollocazione dei lavoratori e contenere le perdite occupazionali. Anche questo tema si deve trasformare in una opportunità operativa per fare passi in avanti in settori considerati strategici per l’economia e lo sviluppo del nostro paese, una opportunità che dobbiamo cogliere e non sprecare guardando al futuro con fiducia e operatività.
Abbiamo bisogno di una politica industriale europea ma anche italiana che sia all’altezza del momento che stiamo vivendo e attraversando capace di indirizzare le applicazioni tecnologiche verso un modello di sviluppo nuovo. Dobbiamo introdurre dei programmi atti a dimostrare che la competizione e l’innovazione si basano sui valori sociali e democratici puntando ai diritti dei lavoratori, alla sostenibilità ambientale e alla lotta alle diseguaglianze. Vanno creati degli asset a livello europeo e va fatto in modo che la ripresa di politiche industriali nazionali non rallenti il processo di integrazione dell’industria europea favorendo spinte nazionalistiche che oggi appaiono non solo inefficaci ma anche dannose, perché rischiano di alimentare una competizione interna sugli aiuti di Stato a danno dei paesi con minore spazio fiscale. La politica Industriale, anche sul piano nazionale, va fatta procedere di pari passo e in connessione alla risoluzione delle grandi questioni sociali ed ambientali del pianeta: il cambiamento climatico, l’invecchiamento della popolazione, la qualità della vita, lo spostamento della ricchezza globale. Le agevolazioni fiscali e i finanziamenti sul piano nazionale devono essere dati alla condizione che le imprese che ne usufruiscano attuino seriamente il rispetto dei contratti, le norme di sicurezza sul lavoro, la parità di genere e il sostegno ad investimenti ambientalmente sostenibili. È necessaria una nuova complementarità tra intervento pubblico ed iniziativa privata.
Abbiamo poco tempo a disposizione per affrontare la crisi climatica: il 2023 è stato l’anno più caldo di sempre. Nel 2023 sono stati ancora superati i record relativi ai livelli di gas serra, alle temperature superficiali, al surriscaldamento e all’acidificazione degli oceani, all’innalzamento del livello del mare, alla copertura del ghiaccio marino antartico e al ritiro dei ghiacciai. Agenti atmosferici imponenti come la siccità, gli incendi, le inondazioni hanno colpito la vita di milioni di persone influendo in maniera massiccia sulle perdite economiche creando problemi e devastazioni. C’è da porre una sfida importante e va chiesto con forza all’Europa l’utilizzo di strumenti efficaci, di risorse consistenti per accompagnare le imprese nella complessa transizione, per potenziare la capacità industriale e l’autonomia strategica europea nei settori chiave per il futuro.
Bisogna procedere con sinergia, con unità, andare in ordine sparso, ognuno per conto proprio è inutile, perché nessun paese europeo da solo è in grado di sostenere la competizione con Cina e USA che è sempre più consistente e poi agire da soli significa indebolire il mercato unico. L’Italia in tutto questo contesto gioca in svantaggio, perché non ha spazi di bilancio paragonabili a quelli della Germania o della Francia per sostenere la propria industria. L’Europa non può e non deve tornare indietro, ci vuole un cambio di passo per concretizzare una politica industriale comune. Il Green Deal europeo deve avere “un cuore rosso”, la transizione verde deve essere una transizione giusta: SURE deve diventare uno strumento permanente per accompagnare e supportare lavoratrici, lavoratori e imprese nelle transizioni, va replicato e reso permanente, ci vuole coraggio.
Bisogna lavorare guardando in lunga prospettiva ad investimenti sulla base di progetti di interesse comune europeo, tra cui idrogeno, batterie, microprocessori, cloud, materie prime, è essenziale. Bisogna varare un Industrial Act insieme al nuovo SURE per supportare i lavoratori di quei comparti che sono maggiormente impattati dalla transizione, va potenziato il Fondo per la Transizione Giusta e il Fondo Sociale Europeo, per finanziare processi di formazione in lavori green e aumentare l’occupazione di qualità. Il piano InvestEU e RepowerEU devono essere attivati per realizzare investimenti privati nei processi industriali chiave per l’economia circolare e la decarbonizzazione come gli impianti di recupero di materia di scarto e re immissione sul mercato di materie prime secondarie, compresa la componentistica per i veicoli elettrici, la filiera per la produzione e l’utilizzo di idrogeno verde, nessuno deve essere lasciato solo e bisogna impegnarsi e insistere per potenziare la capacità industriale europea e l’autonomia strategica nei settori chiave per lo sviluppo.
Su piano italiano vanno attuati alcuni strumenti per accompagnare il sistema delle imprese verso la transizione green che è il modo migliore per proteggere la vocazione manifatturiera del nostro paese. Il verbo accompagnare è fondamentale in passaggi come questo. Un incentivo sotto forma di credito d’imposta per l’installazione di impianti fotovoltaici per autoconsumo sui tetti degli edifici ad uso industriale, commerciale e agricolo. Per quanto riguarda le comunità energetiche rinnovabili l’istituzione di un fondo rotativo di garanzia per il credito a tasso agevolato, un “Voucher Italia Digitale” per la digitalizzazione delle piccole e medie imprese, la creazione di un Fondo da 22 miliardi di euro tra il 2024 e il 2035 per accompagnare le imprese nella conversione ecologica e l’istituzione di una cassa integrazione speciale per accompagnare le lavoratrici e i lavoratori nelle riconversioni industriali senza lasciare indietro nessuno. Nel documento di Impresa Domani della Fondazione Demo abbiamo delineato le nostre proposte principali come PD in tema di politiche industriali:
- Per le PMI, appunto il voucher per la trasformazione digitale e il credito d’imposta per l’autonomia energetica
- Un credito d’imposta unificato per gli investimenti in beni tecnologicamente avanzati, esteso ai beni legati alla transizione ecologica
- Il Fondo Italia 2035 con una dotazione di almeno 5 miliardi annui, per la conversione ecologica del manifatturiero, a partire dai settori Hard to Abate e automotive
- Il potenziamento e la proroga del Fondo Microchip
- Un grande piano per la formazione delle competenze per la transizione digitale ed ecologica
Roma Tavola rotonda su Previdenza Complementare
SANITA’ e PREVIDENZA
Altra riforma che incombe è quella del Sistema Sanitario e Previdenziale, ormai la popolazione è invecchiata, l’aspettativa di vita è tra le più alte al mondo, non possiamo limitarci a discutere di piccoli problemi, 100, 102 o 104, bisogna fare sul serio le riforme e il sistema pensionistico va rimodellato sempre seguendo la logica della solidarietà tenendo ben presente che i giovani e le donne sono l’anello debole della catena previdenziale. Occorre insistere sugli strumenti di flessibilità mirata che aiutano tali categorie all’accesso alla pensione, bisogna porsi il problema della pensione di garanzia per i giovani lavoratori che andranno in pensione con un sistema interamente contributivo ma in assenza dell’integrazione al minimo prevista dal sistema retributivo. Occorre investire nella Previdenza Complementare guardando sempre alle nuove generazioni. L’importanza oggi sempre più urgente dei Fondi Pensioni, il sindacato su questo è arrivato in ritardo perché da sempre si è battuto per avere una Previdenza pubblica, le prime pensioni integrative le abbiamo negli anni 50’ proprio nelle fabbriche, è stato un percorso difficile, tortuoso, le cose sono poi maturate negli anni 80’ con la contingenza della Scala Mobile.
E proprio in quel periodo si è incominciato a ragionare di previdenza integrativa in maniera concreta e prima di tutto alcune categorie di lavoratori come quella degli edili. Si sono dovute abbattere delle resistenze di carattere ideologico forte perché si è sempre pensato che sia lo Stato e solo lo Stato che deve provvedere su questo tema.
I mutamenti della società ma anche del mondo del lavoro hanno spinto in questa direzione perché si è sentita la necessità di trovare uno strumento di integrazione della pensione pubblica, per integrare il gap pensionistico rispetto all’ultimo reddito percepito e quindi migliorare nel complesso le prospettive future oltre a presentare questo strumento dei vantaggi economici : Un primo vantaggio riguarda la deducibilità dei contributi versati dal reddito dichiarato, che portano ad una riduzione del reddito imponibile e quindi ad un risparmio sull’IRPEF. Una tassazione contenuta sui rendimenti perché versare soldi su un fondo pensione equivale a fare un investimento vero e proprio. In generale nel fondo pensione la tassazione sulla rendita ammonta al 20%, mentre sulla quota che deriva dal possesso di titoli di Stato la tassazione scende al 12,5%. È un trattamento fiscale più basso rispetto a quello applicato ad altri strumenti di investimento che in genere sono soggetti ad un’aliquota del 26%
Una tassazione migliore rispetto al TFR, quando arriverà il momento di riscuoterlo il lavoratore dovrà pagare una tassazione piuttosto alta perché verrà liquidato in regime ordinario e seguirà le normali aliquote. Versare invece il TFR in un fondo pensione, porta a fare una scelta fiscalmente più efficiente perché permette di ridurre la tassazione ottenendo un bonus fiscale fino al 34%, immaginando di poter usufruire di tutte le agevolazioni disponibili, e poi ancora esenzione dal bollo e da oneri fiscali in caso di passaggio ad un altro fondo.
Quello che emerge da questi dati è che le tasse sul fondo pensione sono convenienti e quindi la scelta di adesione è interessante per diverse categorie di lavoratori, soprattutto per chi sa già che percepirà una pensione relativamente bassa e chi teme che la propria pensione faticherà a stare al passo con l’inflazione.
La Previdenza Complementare è un’altra sfida che dobbiamo cogliere guardando al futuro e su cui dobbiamo investire e portare avanti con proposte concrete. E allora cosa si può fare per migliorare il cammino tortuoso di questo strumento? Penso che oggi occorra comunicare meglio su queste questioni, creare maggiore sinergia e sensibilità, fare passare il messaggio che i giovani ma anche le donne sono l’anello debole della catena previdenziale e che bisogna garantire loro un futuro economico adeguato che spesso non riescono ad avere. Comunicare bene che la questione della previdenza non interessa solo chi è ormai vicino all’uscita dal lavoro ma soprattutto i più giovani e i professionisti che hanno appena iniziato la loro carriera. I giovani non sono informati e conoscono poco la Previdenza perché la vivono come una dimensione lontana che non gli appartiene. E l’altro aspetto che io penso si possa prendere in considerazione per un miglioramento del sistema è quello di avere condizioni fiscali ancora più favorevoli e convenienti, penso che su questo dobbiamo concentrarci e si possa lavorare in sinergia andando ad ottenere dei risultati che favorirebbero maggiormente le adesioni con una convenienza di carattere generale. Le risorse ci sono, pensiamo solo all’evasione fiscale 87 miliardi l’anno. I giovani vanno sostenuti guardando al futuro perché oggi i loro percorsi lavorativi sono spesso difficili, sono fatti di stage, di lavori sottopagati, di interruzioni professionali, di spostamenti. Investire nella Previdenza Complementare significa investire nel futuro con intelligenza.
E allora le Riforme non possono essere calate dall’alto, devono svolgere un ruolo propositivo e costruttivo. Le forze intermedie, il Governo non deve limitarsi a sentirle, devono discutere con le forze intermedie e le forze intermedie a loro volta devono fare proposte, conoscere profondamente e interpretare i cambiamenti che sono avvenuti nella struttura del nostro paese. Il nostro paese è in ritardo su queste questioni.
Tutto questo richiede una grande capacità di semplificazione delle leggi, bisogna semplificare le autority sono troppe e troppo spesso in conflitto tra di loro paralizzano il paese. Occorre che le leggi tributarie, penali e civili siano eque, occorre per esempio che si faccia una riflessione, da una parte si dice giustamente che il sindacato e i lavoratori devono essere coinvolti nella politica delle imprese, è giusto ed è necessario, ma altrettanto deve avvenire in alcuni enti importanti del paese come l’INPS e l’INAIL, bisogna ripristinare la presenza in questi enti dei sindacati e delle imprese. La gestione è stata negativa negli ultimi anni, l’INPS e l’INAIL devono essere gestiti in maniera diversa, non è ancora stata fatta la separazione tra assistenza e previdenza e gli incidenti e gli infortuni aumentano a dismisura nonostante le enormi disponibilità economiche dell’INAIL che non vengono utilizzate nella giusta direzione.
Circolo PD Milano Centro
PNRR
Il 30 aprile 2021 l’Italia ha presentato alla Commissione Europea il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Il Piano intende rilanciare il Paese dopo la crisi pandemica, stimolare la transizione ecologica e digitale, favorire un cambiamento strutturale dell’economia, a partire dal contrasto alle diseguaglianze di genere, territoriali e generazionali. L’Italia in questo percorso ha giocato un ruolo di primo piano e si è battuta fortemente per giungere al risultato.
Il PNRR nella sua versione originaria prevede 134 investimenti e 63 riforme, per un totale di 191,5 miliardi di euro di fondi. Di questi, 68,9 miliardi sono contributi a fondo perduto e 122,6 miliardi sono prestiti. A questi stanziamenti si aggiungono le risorse dei fondi europei React-EU e del Piano nazionale per gli investimenti complementari (PNC), per un totale di circa 235 miliardi di euro, che corrispondono al 14 per cento circa del prodotto interno lordo italiano. Il Governo ha cominciato a lavorare al Piano nella seconda metà del 2021 e dovrà completarlo e rendicontarlo nella sua interezza entro la fine del 2026.
Il Piano si compone di sei Missioni e sedici Componenti, che si articolano intorno a tre assi strategici condivisi a livello europeo: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, inclusione sociale. Vi sono poi tre priorità trasversali: parità di genere; miglioramento delle competenze, della capacità e delle prospettive occupazionali dei giovani; riequilibrio territoriale e sviluppo del Mezzogiorno. Il Piano deve contribuire in modo sostanziale alla tutela dell’ecosistema senza arrecare danno agli obiettivi ambientali.
Le riforme e gli investimenti previsti nel Piano sono complementari. Gli investimenti permettono l’attuazione delle riforme grazie, ad esempio, al rafforzamento delle infrastrutture. Le riforme permettono la realizzazione degli investimenti poiché migliorano il contesto istituzionale. Il PNRR è un piano con obiettivi e traguardi ben definiti, da realizzare in tempi certi con una cultura della programmazione che va attuata nella pubblica amministrazione.
La prima visione del PNRR nel 2021
Tutte le misure del Piano sono accompagnate da un calendario di attuazione e un elenco di risultati da realizzare che è la condizione per l’erogazione dei fondi che vengono erogati in base ai traguardi e all’avanzamento dei lavori e delle singole tappe. Questi indicatori si dividono in due gruppi: Milestone e Target. – Le milestone (o traguardi) rappresentano fasi principali dell’attuazione del progetto. I target (o obiettivi) sono indicatori concretamente misurabili con i risultati dell’intervento pubblico, come i chilometri di ferrovie costruiti; oppure l’impatto delle politiche pubbliche.
Il Piano è la vera opportunità per il nostro paese non solo per recuperare quello che abbiamo perso a causa della pandemia ma rappresenta la chiave di volta per lasciarci alle spalle vent’ anni di stagnazione, questa è la vera sfida che noi dobbiamo cogliere e che sta alla base del piano, cioè porre il nostro paese su un percorso di crescita molto più sostenuto rispetto al passato e molto più sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale come ci chiede l’Europa, nel senso che l’utilizzo delle risorse europee deve attuare un profondo cambiamento connesso anche al discorso delle Riforme che vanno realizzate.
Gli enti territoriali sono coinvolti in maniera diretta in questo programma, come veri e propri attuatori di una parte importante e consistente dei progetti previsti, ci sono cioè molti progetti che cadono sotto la loro giurisdizione, il 40% del piano. Le risorse vengono attribuite in parte sulla base di progetti di particolare rilevanza e per la maggior parte tramite la compilazione di bandi.
I comuni sono chiamati a gestire complessivamente 60 miliardi delle risorse afferenti al PNRR, contribuendo pertanto in modo decisivo alla messa a terra degli investimenti previsti, in modo particolare per quanto concerne l’attuazione della Missione 2 (efficientamento energetico e gestione dei rifiuti) e della Missione 5 (inclusione e coesione, che comprende il tema della rigenerazione urbana)
Diverse le modalità con cui i comuni partecipano al Piano. Le amministrazioni locali partecipano alla realizzazione del PNRR in aree che variano dagli asili nido, ai progetti di rigenerazione urbana appunto, all’edilizia scolastica e ospedaliera, all’economia circolare, agli interventi per il sociale. Partecipano in qualità di destinatari finali alla realizzazione di alcuni progetti attivati a livello nazionale, come quelli in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione. Hanno, inoltre, un ruolo nella definizione e messa in opera di alcune delle riforme importanti previste dal Piano in materia di disabilità, servizi pubblici locali, turismo e in altri settori di competenza decentrata. Per questi, sarà fondamentale un’attività in stretta sinergia e collaborazione con le amministrazioni centrali.
La vera sfida da vincere in questa complessa progettualità è la capacità amministrativa. Per le città metropolitane e per i comuni di dimensioni maggiori è chiaramente più semplice dal punto vista tecnico e organizzativo per gli strumenti e i mezzi di cui possono disporre, il discorso è più difficile per i comuni piccoli e quindi questa diventa una partita da giocare per fare gestire tutti al meglio questa grande opportunità, snellire le procedure e potenziare la capacitò gestionale delle risorse e il Governo si dovrebbe impegnare per aiutare in questa direzione gli enti locali più piccoli e fare in modo che le risorse non arrivino solo ai comuni di dimensioni più grandi ma che tutti ne possano usufruire.
Questi programmi si intrecciano con la Legge di Bilancio perché ovviamente gli investimenti che verranno fatti nelle infrastrutture tramite il PNRR hanno poi dei costi per quanto riguarda il personale, i servizi, penso per esempio alle infrastrutture sociali, sanitarie e questi costi vanno finanziati e coperti. La Legge di Bilancio dovrebbe fare, ma non lo fa, anzi ha fatto esattamente il contrario, uno sforzo proprio su questo tema con l’aumento dell’erogazione delle risorse a livello locale in previsione del 2026 cioè quando queste infrastrutture saranno a pieno regime e funzioneranno e andranno sostenute nella loro dimensione operativa quotidiana.
È una grande occasione quella del PNRR ed è anche a mio parere l’opportunità per coinvolgere il più possibile i cittadini in questo percorso che io chiamo storico perché nasce da un grande tragedia che è quella della pandemia, ma che ha visto l’Europa per la prima volta ragionare e operare come una grande famiglia che mette insieme e a disposizione le proprie risorse e questo grazie anche e soprattutto al ruolo giocato fino in fondo dall’Italia. Cosa ha fatto il Governo? Come si è comportato rispetto ai programmi inziali?
Il Governo attuale è sempre stato in forte imbarazzo rispetto alla attuazione del piano per ovvi motivi e ha iniziato una serie di rallentamenti, di ritardi e di cambiamenti di progetti e di agenda che hanno portato a stralciare delle parti importantissime e fondamentali. A che punto siamo? Siamo al punto che sono state spese solo la metà delle risorse stanziate e rischiamo di andare a sbattere rispetto alla scadenza del 2026 lasciando per strada opere e progetti.
La spesa si è fermata a 45,6 miliardi meno della metà dei 101,93 che l’Italia ha incassato fino ad oggi. Da qui all’estate del 2026 bisognerà spendere circa 150 miliardi cioè 50 all’anno, una accelerazione impossibile se si considera che dal 2021 al 2023 quindi in tre anni si è riusciti a impiegare appena 45 miliardi. Non è vero come cerca di asserire il Governo che la spesa nel 2023 è stata pari a 21,1 miliardi mentre nel biennio 21 e 22 con Draghi a Palazzo Chigi si è fermata a 24,4 miliardi perché i primi due anni del PNRR sono stati più del terzo caratterizzati da obiettivi da raggiungere in prevalenza di natura qualitativa che hanno consentito di avviare le opere e le relative procedure senza generare spesa. E inoltre altri numeri testimoniano i ritardi, lo scorso autunno con la NADEF era stata programmata una spesa di 40,9 miliardi nel 2023 poi stretta ancora a 33,8 miliardi ma alla fine l’asticella si è fermata ancora più in basso 21,1 miliardi. I cantieri stentano a partire e i ministeri tra i soggetti attuatori principali procedono a rilento, si è perso molto tempo.
Vediamo dove il Governo sta tagliando, stralciando e non portando a termine le scadenza. Innanzitutto, i comuni. Già in finanziaria sono state diminuite a dismisura le risorse per i comuni, la prima volta dopo sette anni, tagli di risorse per gli enti locali: 200 milioni in meno per i Comuni e 50 milioni per le Province e le Città metropolitane, ovviamente a discapito delle persone già in difficoltà perché vengono ridimensionati i servizi di carattere primario e l’assistenza alla disabilità. Ancora nuovi tagli ai progetti del PNRR, quelli per la gestione del rischio alluvione, per la riduzione del rischio idrogeologico e per la mobilità sostenibile. Gli investimenti sul Repower vengono concentrati su pochi progetti gestiti dalle grandi aziende di stato, a danno dei progetti dei comuni a cui vengono tolti circa 13 miliardi. Un vero e proprio taglio alle comunità locali. Tagli alle infrastrutture ferroviarie, tra cui la connessione Roma – Pescara e la Palermo – Catania. 300 milioni tolti ai beni confiscati e un altro miliardo ai progetti sull’idrogeno nei settori hard to abate che rischiano di penalizzare la riconversione dell’Ilva che versa in condizioni molto preoccupanti mettendo a repentaglio il futuro dei lavoratori e delle loro famiglie.
Sono inaccettabili i tagli proposti dal Governo per i Comuni che tradiscono gli impegni e le finalità del Piano mettendo seriamente a rischio la realizzazione dei progetti e delle infrastrutture. Risulta incomprensibile il parametro di assegnazione dei tagli da distribuire sui Comuni, la metà dei tagli è misurata in proporzione alle risorse del Pnrr assegnate a ogni amministrazione alla fine del 2023, per cui chi ha più progetti finanziati dal Piano subisce tagli maggiori, ma con quale logica e con quali obiettivi? Si tratta del risultato previsto dal meccanismo del MEF che con l’ultima Legge di Bilancio punta a ridurre le risorse ai comuni, alle province e alle città metropolitane per un totale di 1,25 miliardi di euro nel corso di 5 anni. Il 50% del taglio si rifletterà sulla spesa corrente mentre l’altro 50% sulle risorse ottenute con IL PNRR. Non ha assolutamente alcuna logica costruttiva mettere insieme la spesa corrente e le risorse che provengono dal Piano rischiando fortemente di realizzare nuove infrastrutture che poi non avranno i fondi adeguati per poter funzionare quando saranno a pieno regime. Ovviamente questi tagli se attuati andranno a rivalersi su tutti quei programmi legati al welfare, alle famiglie, alle persone fragili e al tema della disabilità e a tutto ciò che ruota intorno alla questione sociale.
Tutte le preoccupazioni vengono confermate: il governo non sa gestire il PNRR, il più grande progetto di crescita e sviluppo che doveva servire a ridurre i divari territoriali del nostro Paese. Siamo di fronte ad un governo che parla del Ponte sullo Stretto ma taglia le risorse necessarie ad unire il Paese. Il rischio concreto è che non venga rispettata la clausola del 40% delle risorse destinate al sud del paese. Con la beffa aggiuntiva del blocco dei fondi di sviluppo e coesione prevalentemente destinati al mezzogiorno. E, come avviene da mesi, queste decisioni vengono prese senza che il Parlamento ne possa discutere. Le comunità locali che hanno in molti casi già avviato i cantieri per opere di rigenerazione urbana o di contrasto al dissesto idrogeologico attendono risposte: sia sulla copertura finanziaria dell’opera sia sugli anticipi alle imprese che si sono giudicate gli appalti.
Aggiungo su questo tema che la Regione Abruzzo, colpita dal sisma sia nel 2009 che nel 2016, si vedrà pertanto sottrarre, senza adeguate motivazioni rispetto agli obiettivi del Pnrr e del PNC, importanti risorse già programmate per gli interventi nelle aree terremotate a danno dei cittadini e delle imprese del proprio territorio.
Nel Piano inoltre sono contenuti programmi importanti per incentivare il lavoro e l’imprenditorialità femminile, ci sono tutti i passaggi per procedere alla riduzione dell’evasione fiscale dal 18,8% al 15,8% che sono stati ignorati dal Governo che ha lasciato cadere il progetto che era uno di quelli più importanti. Il Piano ha recepito infatti la proposta della Commissione Europea e dedica un’attenzione particolare alle donne e all’esigenza di costruire una strategia per favorire l’occupazione femminile.
L’obiettivo di partenza è ambizioso: un aumento del 4 per cento entro il 2026, un risultato che sarà possibile attivando progetti di varia natura, che vanno dalla formazione fino all’inserimento lavorativo, e ancora attraverso incentivi e misure ad hoc.
Il PNRR e i suoi programmi si impegnano su questa questione: I partenariati allargati, ad esempio, prevedono un aumento fino al 40% delle assunzioni a tempo indeterminato di ricercatrici. Per raggiungere questo obiettivo, si promuovono protocolli specifici con gli ordini professionali, i consulenti del lavoro e le Università che mettano a disposizione banche dati di curricula femminili, utili soprattutto per la ricerca di profili specifici. Il “Fondo impresa donna”, un pacchetto di risorse che si propone di contribuire allo sviluppo sul mercato di almeno 700 nuove imprese femminili entro il 2023, con l’ambizione di arrivare fino a oltre 2400 entro il 2026.
Nel PNRR ci sono da destinare circa 4,5 miliardi di euro agli asili nido e alle scuole per l’infanzia mentre questo governo nella revisione del piano ha cercato di tagliare fortemente questi fondi. Si tratta di programmi che avranno ricadute estremamente positive sia a livello sociale che economico: basti pensare che l’implementazione della rete di asili nido potrebbe avere una ricaduta importante sull’occupazione e sul Pil, tanto che, secondo una stima di Banca d’Italia, se l’occupazione femminile arriverà al 60% il Pil potrebbe crescere di ben 7 punti percentuali.
Aggiungo i tagli spaventosi alla Sanità pubblica all’interno del Piano una sforbiciata per 1,2 miliardi di euro ai progetti del Piano Nazionale Complementare per il programma “Verso un ospedale sicuro e sostenibile”. Si tratta di una riduzione di investimenti già programmati del tutto insostenibile e non regge il rinvio ad altre fonti di finanziamento. In ogni passaggio di rimodulazione dei fondi europei o nazionali collegati al PNRR la scure cade sulla sanità, dimenticando che all’origine di quelle risorse c’è stato il dramma della pandemia e la necessità di colmare i divari e affrontare le fragilità del nostro Servizio Sanitario Nazionale così come è in alto mare e non decolla il progetto Transizione 5.0 che sarebbe stato utilissimo per il rilancio e lo sviluppo economico del paese.
Utilizzare al meglio questi fondi rappresenta un’occasione per allargare il dibattito e avvicinare le persone alla politica e a vivere in prima persona questo importante passaggio dove non possiamo sbagliare ma solo realizzare puntando alla crescita, allo sviluppo e pensando con ottimismo al futuro e in questo percorso dobbiamo esserci e sentirci tutti coinvolti, questo deve essere il messaggio e la vera mission. Noi dobbiamo pensare con convinzione che il successo del Recovery non dipende solo dalla politica e da chi governa, ma a tutti i livelli dagli enti locali, aziende, cittadini, lavoratori, parti sociali e dalla sua realizzazione dipende in gran parte lo sviluppo economico del paese e la tenuta dei nostri conti pubblici.
Tavola rotonda Parità Salariale Confronto con i Sindacati
PARITA’ SALARIALE
La questione di genere oggi è e deve essere al centro del dibattito e dell’agenda politica anche e soprattutto a fronte delle vicende drammatiche di cui siamo stati protagonisti e che abbiamo vissuto in questi ultimi anni.
Oggi occorre rinnovarsi nella società e nei suoi ambiti. Questo percorso deve diventare un’opportunità di cambiamento e di arricchimento che sarà efficace se sarà capace di dare piena rappresentanza alle donne nella politica e nelle istituzioni così come nelle professioni. Un vero cambio di passo deve passare oggi attraverso il confronto tra generi, tenendo presente che la questione di genere rappresenta la linea di demarcazione tra una evoluzione della società che coinvolge e sviluppa i diversi talenti e una involuzione della stessa in cui le donne rimangono a disposizione del potere che di fatto rimane maschile. La società ci mostra ancora l’immagine di una donna su cui gravano molte problematiche del nostro tempo e lo stesso lavoro rimane ancorato nell’ambito di una competizione prettamente maschile. Oggi i dati ci dicono che le donne sono molto più istruite rispetto ad un tempo, i dati della Banca D’Italia, spesso ignorati anche da chi ci governa, ci dicono che le donne portano maggiormente a termine il percorso di laurea rispetto agli uomini e con votazioni maggiori, ma nella vita professionale e nei percorsi di carriera conta ancora molto, e sembra paradossale, il ruolo o la professione del padre o del marito e il loro intervento, la loro influenza.
Occorre maggiore attenzione alla vita concreta delle donne che da sempre si sono fatte carico di un welfare familista a causa della mancanza di servizi. Bisogna investire in nuove politiche a vantaggio delle famiglie che garantiscano e promuovano pari opportunità. È necessario in questa direzione potenziare le norme per poter conciliare i tempi di lavoro e quelli di cura che permettano, in una moderna visione, di restituire all’uomo uno spazio nella vita privata e alla donna uno spazio in quella pubblica proponendo una relazione più autentica nella distribuzione di ruoli e compiti. Investire inoltre sulle donne in campo professionale è una necessità per lo sviluppo del paese, i dati ci dicono che i paesi più sviluppati sono quelli dove vi è minore disparità di genere, il lavoro delle donne fa aumentare notevolmente il PIL e in tutto questo vi è una convenienza economica e pubblica oltre che soggettiva.
Le donne guadagnano meno degli uomini, decisamente meno: le legge è uguale per tutti, i contratti pure, ma nel corso della loro vita lavorativa le carriere, le interruzioni, le scelte fatte o subite fanno sì che questa parità sia solo apparente. Un rapporto diseguale con il reddito e con l’indipendenza economica accompagna le donne dall’infanzia alla pensione, se lavorano. Si chiama Gender Pay Gap : è la differenza che corre, a parità di mansione, tra lo stipendio di un uomo e quello di una donna e da qualsiasi punto venga effettuato l’osservatorio il finale però non cambia : la busta paga delle donne è sempre più leggera.
L’Italia si piazza al 63° posto su un panel di 156 paesi che attuano la parità salariale.
I dati ISTAT ci dicono che l’occupazione femminile è cresciuta ma in un mercato del lavoro che secondo le statistiche è il migliore da 30 anni, le italiane arrancano ancora parecchio rispetto alla media europea. Le occupate sono arrivate sì a 9,87 milioni recuperando il calo notevole dovuto al Covid ma il 2024 si apre con un dato che certamente non è positivo, cioè l’occupazione femminile è arrivata al 55% e l’Italia scivola all’ultimo posto nell’Unione Europea per percentuale di occupazione femminile che è di circa 14 punti percentuale al di sotto della media UE che è del 69,3% quindi Il tasso di occupazione femminile è migliorato rispetto alla fase più acuta della pandemia quando era calato nuovamente sotto la soglia del 50% ma comunque è ancora molto distante dalla media europea e dalla soglia del 60% che secondo la strategia di Lisbona avremmo dovuto raggiungere entro il 2010. Oggi, come allora, la meta di 6 occupate su 10 continua ad essere un obiettivo lontano.
Le donne inattive sono il 42,6% mentre gli uomini il 25,2%, la non partecipazione al mondo del lavoro è ancora femminile e il lavoro spesso nemmeno si cerca. L’asimmetria nel lavoro di cura rimane una zavorra, per le donne rappresenta oltre il 62% sul tempo di lavoro complessivo della coppia di partner occupati. L’altro nodo è quello della maternità che continua a rappresentare un ostacolo non solo alla crescita professionale ma anche al lavoro in sé. Secondo i dati INAPP dopo la nascita di un figlio quasi una donna su 5 tra i 18 e i 49 anni non lavora più e solo il 43,6% permane nell’occupazione. Motivazione prevalente la conciliazione tra lavoro e cura per il 52% seguita dal mancato rinnovo del contratto o dal licenziamento per il 29%.
Ancora il lavoro delle donne quando c’è è più precario di quello degli uomini e meno retribuito. La quota dei contratti stabili incide per il 20% su quelli maschili e per il 15% su quelli femminili. Sulla totalità dei nuovi contratti delle donne il 49% è a tempo parziale contro il 26,2% degli uomini. Precarietà e tempo parziale rendono inevitabili i contraccolpi sulle retribuzioni. Eurostat ci fotografa un Gender Pay Gap del 13% in media nell’Unione Europea con l’Italia che va dal 4,1% del Settore Pubblico al 16,5% del Settore Privato, le vette qui da noi si raggiungono nelle professioni scientifiche e tecniche 26% e in quello della finanza 22,9% che sono gli ambiti dove le donne sono meno impiegate. Infine, diseguaglianza chiama diseguaglianza, l’INPS evidenzia come sul totale di 305 miliardi di euro di pensioni erogate, solo il 44% sia stato corrisposto alle donne, la differenza tra uomini e donne nel reddito da pensione è di oltre 6 mila euro.
Spesso senza essere consapevoli delle conseguenze che ciò comporterà, le donne cadono nel tranello della cosiddetta “segregazione occupazionale”: scelgono cioè lavori più adatti alla loro situazione caratterizzati da retribuzione bassa e scarsa prospettiva di carriera, ma più compatibili con la gestione familiare perché magari garantiscono vicinanza a casa, orari di routine, assenza di trasferte. Le donne non possono più essere il pilastro del nostro sistema di welfare, non possono più farcela. Non possono sostituirsi come prima all’attività dei servizi sociali e sanitari. Vogliono lavorare, vogliono realizzarsi su tutti i piani, vogliono avere figli che oggi spesso non riescono ad avere e vogliono affermarsi anche sul lavoro. La politica deve capire che questa è una priorità essenziale per il rilancio del nostro paese.
Oggi su queste questioni abbiamo una grande opportunità offerta dal PNRR con le risorse provenienti dall’Europa, anche se purtroppo questo Governo è in ritardo sui progetti e non sta lavorando nella giusta direzione secondo quanto è stato anche concordato con la Commissione Europa.
Fondamentale è investire nella protezione sociale e nel welfare per l’infanzia. Sono aspetti questi tutt’altro che trascurabili, soprattutto se agli asili nido vengono affiancati progetti di diffusione del tempo pieno con servizio mensa e il potenziamento delle infrastrutture sportive a scuola e dei servizi socioassistenziali, per disabilità e marginalità, potenziare anche le connessioni, la rete dei trasporti per permettere di muoversi meglio e con più facilità riducendo i tempi.
È stata votata la Direttiva Europea che sancisce per l’ennesima volta la parità retributiva tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore e il divieto di discriminazione in materia di occupazione e impiego per motivi di genere, L’UE intende rendere trasparenti le informazioni sui vari livelli retributivi e sviluppare strumenti e metodologie che rendano semplice valutare e confrontare il valore del lavoro. La trasparenza è certamente un passo in avanti ma non è sufficiente perché da un punto di vista normativo non esiste una regola di parità di trattamento cioè il datore di lavoro rimane comunque libero di retribuire in maniera diseguale i lavoratori purché queste differenze siano motivate sulla base di criteri oggettivi e neutri rispetto al genere e quindi si dà il caso che si possano trovare moltissime ragioni per giustificare il trattamento differenziato. Sul piano retributivo i minimi tabellari sono uguali per uomini e donne, ma ciò che cambia è la parte variabile della retribuzione. Quindi l’inquadramento e la relativa retribuzione possono essere determinati da fattori diversi dal mero tempo di lavoro o dall’anzianità professionale, ed è assai probabile che nonostante la direttiva permangano i gap retributivi perché l’eguaglianza di opportunità è cosa ben diversa dall’eguaglianza formale. Per attuare la prima occorrono investimenti pubblici ben precisi per fare in modo che le condizioni di partenza e di competitività tra uomo e donna siano le stesse ma questo non è un problema che può affrontare in maniera fattiva la direttiva votata che non risulta efficace ma soprattutto risolutiva.
Quale è il significato di tutto ciò? Che il tempo guadagnato dalle donne è la via per evolvere la società, lì dove le donne hanno spazio aumenta il livello di istruzione e quello imprenditoriale, calano la violenza, la fame, la povertà, diritti femminili e società più sana viaggiano di pari passo. Quindi il lavoro, la carriera e gli spazi delle donne migliorano la vita di tutti facendo crescere comunità e paese intero, su questo dobbiamo insistere.
Questo vale anche e soprattutto in ambito economico, bancario e finanziario, anche qui sono stati fatti certamente passi in avanti, penso per esempio agli obblighi di comunicazione delle informazioni di carattere non finanziario che accrescono la consapevolezza e la trasparenza delle banche sui loro risultati e su come le risorse impattano sulle loro attività. In quest’ottica incoraggiare e valorizzare la partecipazione delle donne, rimuovendone anche gli ostacoli culturali che permangono nel settore, deve essere un obiettivo primario. I benefici che ne derivano a favore degli intermediari finanziari che creano un ambiente diversificato e inclusivo sono importanti perché la diversità è un bene essenziale, specie negli organi di vertice, aumenta la creatività, le idee, evita la monotonia dei progetti e assicura un processo decisionale efficace e il raggiungimento dei piani di lavoro.
Con la Legge Golfo Mosca sono stati per la prima volta introdotti nel 2011obblighi di parità di genere negli organi di amministrazione e delle società quotate nei mercati regolamentati, le quote sono state poi prolungate e aumentate. La diversità di genere è un valore promosso anche dalla Banca D’Italia nelle disposizioni di vigilanza delle banche ed è stato introdotto l’obbligo per i board delle banche di avere una composizione diversificata nella sua accezione più ampia, non solo quindi in termini di genere ma anche di età, competenze e provenienza geografica perché la diversità di competenze e caratteristiche è un valore aggiunto e primario per concretizzare i progetti e giungere ai risultati prefissi. Questo tipo di iniziative sono in corso anche a livello europeo e internazionale. Per esempio il G7 è intervenuto proprio sul discorso della partecipazione femminile ai temi economici e per raggiungere questi obiettivi non basta il rispetto delle quote imposte dalla legge ma serve garantire parità di condizioni competitive tra i generi che richiede appunto di riequilibrare il GAP salariale ma anche di approntare un sistema di welfare adeguato perché le donne possano dedicare il tempo necessario alla loro carriera lavorativa, questo è il punto principale, bisogna realizzare uguali opportunità di partenza e di competizione.
Cito ancora qualche dato, come dicevo prima i paesi dove vi è minore disparità di genere sono quelli più sviluppati. Il Fondo Monetario Internazionale afferma che il tasso di occupazione femminile rappresenta uno stimolo fortissimo alla crescita del PIL e più precisamente aumenterebbe l’economia globale ben del 35%, un pensiero questo condiviso dalla Harvard Business School secondo cui una piena parità di generi nel mercato del lavoro con una attenzione al campo economico e finanziario porterebbe a fine 2025 ad avere un PIL globale annuo pari al 26%. La Gender Economics, l’economia di genere, è un filone di ricerca proprio atto a dimostrare che le politiche di genere influenzano l’andamento economico di un paese e su questo assunto si impegna a contrastare le diseguaglianze di genere per realizzare un cambiamento globale.
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Permettetemi poi di aggiungere qualche considerazione politica. Fattore D, donna, non è una questione di nicchia. È un fattore decisivo per il rilancio della sinistra. Dobbiamo valorizzare le donne, la loro cultura, la loro concretezza, la loro creatività. Oggi le donne non vanno solo difese vanno valorizzate e dobbiamo ricordare quante donne sono state e sono decisive in passaggi fondamentali e complessi del nostro paese. In un mondo dove dominano le ansie, le paure, i dubbi, l’apatia, la rassegnazione, le donne sono necessarie perché capaci di ricostruire fiducia, di realizzare i sogni, di alimentare le speranze. Le donne sanno recuperare quel senso di comunità, quei fattori di solidarietà che sono decisivi per dare risposte esaurienti alle domande della gente. Occorre un cambio di passo decisivo con la messa in campo degli strumenti adatti, potenziare i servizi per la prima infanzia che mancano soprattutto nel Mezzogiorno, creare un bilanciamento vero e proprio per i carichi di cura che oggi sono sulle spalle delle donne, incrementare le politiche sulla genitorialità e lavorare per modificare davvero quelli che sono i fattori culturali consolidati. Non è più pensabile né accettabile che le donne siano messe oggi davanti al bivio della scelta se lavorare o andare in maternità, la questione da risolvere è quella della conciliazione e delle medesime opportunità di partecipare al mondo del lavoro e della professionalità. L’Italia, infatti, si colloca tra i paesi peggiori in Europa per quanto riguarda l’equilibrio vita – lavoro a scapito ovviamente della parte femminile. Una donna su cinque dopo avere avuto il primo figlio si ritira dal lavoro perché non ha servizi a disposizione o sono troppo costosi e nella famiglia restano a casa le donne perché sono quasi sempre quelle che hanno lo stipendio più basso e quindi vi rinunciano. Senza sottovalutare le competenze che le donne hanno sviluppato come la gestione al meglio del tempo, organizzazione, sensibilità, empatia, capacità di fare squadra, resilienza in situazioni con evidenti difficoltà, determinazione verso gli obiettivi che sono tutte caratteristiche ricercate nelle grandi aziende e nelle organizzazioni.
Questo è il percorso che oggi va intrapreso su questi temi per andare incontro ad una società migliore per tutti. Battersi per i diritti delle donne, per i loro spazi, per la loro valorizzazione ha un ritorno di benessere, progresso e futuro di speranza per tutti e la nostra forza deve essere il gioco di squadra e la sinergia tra di noi, non la competizione tra noi ma l’unità pur nelle differenze e il lavoro insieme per agire sui temi ma anche per cambiare e modificare una mentalità e un modo di pensare consolidato che è anche la causa della violenza che si abbatte sulle donne, che fatica a sradicarsi, ci vuole una vera e propria azione educativa a partire dagli uomini che devono avere in questo percorso un ruolo decisivo ma soprattutto una presa di coscienza forte che oggi manca. Questo deve essere il nostro obiettivo.
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