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Candidature all’Oscar 2013 – Approfondimento ragionato alle varie Nomination

  • Redazione Assodigitale
  • 5 Febbraio 2018
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Sarebbe stato un piacere dedicare questo articolo alla pioggia di candidature ricevute da The Master di Paul Thomas Anderson, godere del riconoscimento globale e ponderoso della pellicola statunitense più precipua, urgente e peculiare della stagione in corso; non avremmo saputo trattenere la gioia di fronte al definitivo sdoganamento della poetica di Terrence Malick nel territorio conservatore e moderato dell’Academy, un’apparizione insperata e anche solo rappresentativa del suo bellissimo To the Wonder, opera che pare al contrario aver compromesso per sempre i rapporti fra il suo autore e il pubblico d’oltreoceano; infine – e, per questa volta, ne avevamo ben donde – ci saremmo tolti la soddisfazione di tifare orgogliosamente per il nostro ambasciatore fra gli “ospiti” stranieri, quel Cesare deve morire che, conquistata Berlino, sembrava rilanciarci seriamente in ambito internazionale.


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Invece, ancora una volta, è necessario adeguarsi e ricercare nelle candidature agli Oscar 2013 un favorito di ripiego, un campione ideale e relativo che non potrà comunque competere con una perfezione scomoda passata sotto silenzio.

C’è poco da dire in più di quanto già si sapesse dalla scorsa estate: Lincoln, il tradizionale e (sin dal titolo) perentorio dramma storico diretto da Steven Spielberg in uscita in Italia a fine mese, domina prevedibilmente il campo con una dozzina netta di nominations e con la sicumera da prodotto a stelle e strisce al 100% di chi sa di poter vincere facile, dopo aver racimolato un po’ dappertutto – in primis, ai decisivi e recenti Critics’ Choice Awards – premi e menzioni per il suo mimetico e ormai mitologico protagonista Daniel Day-Lewis.

A tenergli testa, una manciata di agguerriti concorrenti la cui effettiva pericolosità verrà progressivamente riconosciuta o disinnescata solo nei giorni a seguire: per la prima volta nella storia dell’industria hollywoodiana, infatti, l’annuncio dei possibili vincitori è avvenuto in anticipo rispetto all’assegnazione dei Golden Globe, da sempre ritenuti l’imprescindibile anticamera degli Oscar e, seppur con le dovute eccezioni, il loro canovaccio.

A quota undici, subito dietro il sedicesimo Presidente degli Stati Uniti e i suoi sforzi per abolire irrevocabilmente la schiavitù con la promulgazione del tredicesimo emendamento si pone la parabola animista e teocentrica di Vita di Pi (da noi già in sala), fortunato e attesissimo adattamento del bestseller di Yann Martel con cui Ang Lee ritorna prepotentemente fra le braccia del grande pubblico e lontano dalla créme festivaliera; un ex aequo riunisce i due previsti mattatori della divisione “commedia o musical” dei Golden Globe, ovverosia il britannico Les Misérables, riduzione cinematografica ad opera di Tom Hooper (Il discorso del re) dello spartito di Claude-Michel Schönberg (e, naturalmente, del romanzo di Victor Hugo), e l’indipendente, agrodolce Silver Linings Playbook (da noi si intitolerà Il lato positivo), con cui David O.Russell, dopo l’exploit di The Fighter e dei suoi due interpreti di supporto, conquista il traguardo considerevole di occupare tutt’e quattro le divisioni attoriali, circostanza che non si verificava dai tempi di Reds.

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Dati inizialmente come più temuti antagonisti di Spielberg e incagliatisi a 7 candidature sono Ben Affleck e il suo Argo, che hanno inaspettatamente spodestato l’artefice di Incontri ravvicinati del terzo tipo dal trono dei Critics’ Choice Awards ma che, pena l’esclusione inattesa dal novero dei migliori metteurs en scène, rischiano di vedersi fuori dai giochi; altra vittima illustre di questa omissione è Kathryn Bigelow, che raccoglie a fatica 5 nominations con il suo Zero Dark Thirty e che, sfrondando le varie controversie dietro alla cattura di Osama bin Laden e senza lesinare su scene esplicite di tortura, pare aver toccato un tasto ancor più dolente dell’ambigua dipendenza da campo di battaglia del suo The Hurt Locker; non va dimenticato Django Unchained di Quentin Tarantino, a cui non è bastato l’entusiasmo della prima ora per imporsi all’attenzione del pubblico americano e che, anch’esso sotto la mezza dozzina di candidature, si sta vedendo via via sempre più ridimensionato.

E’ però dagli apparenti sfavoriti che vengono le grandi soddisfazioni e quelle – seppur illusorie – imprevedibili sorprese in grado di vivacizzare e di diversificare l’ambiente: a pari merito con i due partecipanti precedentemente menzionati, ma con peso ben diverso, si classifica Amour, Palma d’Oro a Cannes 2012 e, con pochi dubbi a proposito, capolavoro assoluto dell’anno passato, che, oltre alla sua scontata presenza fra le pellicole straniere, ambisce al titolo di miglior film, proietta Michael Haneke fra i migliori registi e sceneggiatori e, dulcis in fundo, fa entrare in cinquina anche la sua magnifica protagonista Emmanuelle Riva, ad oggi la più anziana attrice mai candidata nella categoria.

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Altra rivelazione – vista soprattutto la sua assenza ai Golden Globes – è lo splendido Beasts of the Southern Wild (verrà distribuito a febbraio col titolo Re della terra selvaggia), presentato sulla Croisette e accolto trionfalmente in tutto il mondo: la disarmante, magica e folgorante scoperta del mondo da parte della piccola Hushpuppy fra le paludi della Louisiana viene finalmente riconosciuta anche in patria, consacrando il film stesso, la sceneggiatura non originale, la malickiana regia dell’esordiente Benh Zeitlin e la sua fenomenale eroina Quvenzhané Wallis, che, per una curiosa combinazione e con i suoi nove anni appena compiuti, si ritrova a infrangere un record speculare a quello dell’ottuagenaria Emmanuelle Riva.

Sul versante recitativo, dovrebbe essere garantito il terzo trionfo di Daniel Day-Lewis, anche se l’entusiasmante Joaquin Phoenix di The Master resta un assai potenziale e (più) meritevole rivale, mentre a completare la comitiva sono prevedibilmente il pilota di linea alcolizzato interpretato da Denzel Washington in Flight di Robert Zemeckis, il Jean Valjean di Hugh Jackman (Les Misérables, naturellement) e l’outsider Bradley Cooper – finora noto principalmente per la sua partecipazione a Una notte da leoni – per Silver Linings Playbook, che avrebbe potuto essere comodamente rilevato dal ritrovato Jean-Louis Trintignant – incoronato recentemente dalla National Society of Film Critics -, dalla brillante prova di Bill Murray nell’altrimenti fiacco A royal weekend o dalla impensabile performance di Matthew McConaughey in Killer Joe.

Dal corrispettivo femminile, nomi annunciatissimi come Jessica Chastain (Zero Dark Thirty), Jennifer Lawrence (Silver Linings Playbook) e Naomi Watts (il mélo catastrofico The Impossible) si ritrovano a fare compagnia ai due record di cui sopra e non alla prevista Marion Cotillard, che con Un sapore di ruggine e ossa sembrava aver già prenotato una poltrona al Dolby Theatre.

Più che davanti a una selezione dei migliori attori non protagonisti della stagione, sembra di trovarsi al cospetto una specie di revival, visto che, ad esclusione di Philip Seymour Hoffman (candidato per The Master), il resto dei candidati ha già conquistato un premio nella categoria: Argo è infatti rappresentato dal piccolo ruolo del decano Alan Arkin, Silver Linings Playbook schiera – forse nel suo unico ruolo di rilievo da inizio millennio a oggi – nientemeno che Robert de Niro, fra i papabili delegati di Django Unchained si impone Christoph Waltz, mentre fra quelli di Lincoln avanza Tommy Lee Jones. Viene però da chiedersi quanto il prestigio e la nomea dei divi coinvolti abbiano preso il sopravvento sull’effettivo merito, considerata la quantità di alternative drammaticamente snobbate: il carismatico villain di Javier Bardem in Skyfall non era proprio da prendere in considerazione? E perché annoverare Christopher Waltz fra i non protagonisti di Django Unchained, quando la sua presenza sulla scena, peraltro densissima di battute, ammonta a due ore piene su 150′, quando la wellesiana interpretazione di Leonardo DiCaprio o, ancora meglio, il formidabile, indimenticabile contributo di Samuel L. Jackson potevano avere più senso?

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Tutto come previsto – o quasi – anche fra le attrici di supporto che vedono le strafavorite Anne Hathaway (Les Misérables) e Amy Adams (The Master) sfidare avversarie più “istituzionali” come il due volte premio Oscar Sally Field (Lincoln) ed Helen Hunt (The Sessions), mentre entra clamorosamente in competizione, dopo un’immeritata sconfitta nel 2011, l’australiana Jacki Weaver, che chiude il cerchio delle candidature di Silver Linings Playbook.
Non resta che aspettare la fine di febbraio – e le anticipazioni della stampa estera – e augurarsi che, una volta tanto, possa davvero vincere il migliore.

Andrea Bosco


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