La solitudine del selfie stick
Qualcuno lo chiama narci-stick, qualcuno, imbarazzato, giura di non averne nemmeno mai sentito parlare, altri lo usano con disinvoltura dichiarando che sia la svolta per la pratica del selfie.
Il selfie stick, non è altro che un supporto, una sorta di treppiedi, per il proprio smartphone o la propria macchina fotografica digitale, che permette di scattarsi una fotografia da soli in modo più comodo rispetto al tipico selfie.
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Oltretutto, il selfie stick non serve realmente per scattare dei selfie. Questi, infatti, presentano delle caratteristiche precise che non vengono rispettate con il selfie-stick. Per esempio, il braccio che si allunga lʼinquadratura ristretta e così via.
Ma non è solo una questione di tecnica. Il selfie stick è stato protagonista dellʼultima estate, sia perchè lo si è visto fra le mani dei turisti in tutto il mondo, sia perché molte istituzioni hanno deciso di bandirli.
Al Colosseo non si può utilizzare, e nemmeno a Versailles o alla Sydney Opera House, per motivi di sicurezza e privacy. O questa, perlomeno, è la spiegazione ufficiale.
Ma cosa racconta davvero il selfie stick della società contemporanea?
Tralasciando allarmismi e paure sullʼinvasione delle tecnologie e fini del mondo come lo si conosce, il selfie stick può forse rispecchiare alcune nuove abitudini che si stanno consolidando.
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Se è vero che la tecnologia non determina le nostre azioni è anche vero che permette di compierne alcune prima impossibili.
Il selfie stick, pur essendo solo un semplice accessorio dice qualcosa del nostro essere persone nel mondo. Si è più connessi, sempre a portata di smartphone, ci si aggiorna in tempo reale, si scattano innumerevoli foto di cose che si dimenticano pochi secondi dopo (per approfondire il rapporto fra fotografia e dimenticanza si legga qui) ma, a volte, ci si ritrova davvero ad essere più lontani e, può capitare, anche più diffidenti.
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Cosa rimane allora di social in una fotografia scattata con lʼintento di essere condivisa in uno spazio sociale ma che viene prodotta evitando qualsiasi contatto umano? Fino a qualche anno fa, in situazioni come quella dell’autoscatto, ci si doveva, spesso, fidare del prossimo. Il selfie non sempre bastava per immortalarsi con un paesaggio e allora si chiedeva timidamente “Scusi? ci potrebbe fare una foto?”.
Il contatto era minimo ma spesso si finiva a ridere tutti insieme e a costruire un ricordo, da rivedere allʼinterno di quella foto sfocata e venuta male che ci aveva scattato il signore negato per la fotografia di turno.
Oggi, invece, si allunga il selfie stick, si fanno mille smorfie fino a trovare quella giusta, ci si immortala con la colazione, con il brunch, con il monumento, mentre si va a lavoro, prima di correre, dopo la corsa.
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Si immortala il posto bellissimo dove si è andati a cena, in vacanza, per il weekend… e così via. Ma si limita allo stesso tempo il contatto umano, si evita la relazione, lo scambio e la fiducia.
Perchè fidarsi nel dare a qualcuno il proprio smartphone se si può fare da soli? I social media, le tecnologie, gli spazi e gli strumenti della condivisione, sono ormai il tessuto del quotidiano. Essi proliferano in un mondo dove si condivide tutto ma dove, a volte, ci si sente un po’ più soli.
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Propositi per il mese di Settembre:
-pensare “ma chiederei a qualcuno di fotografarmi con la colazione?” prima di tirare fuori il selfie stick e produrre lʼennesimo autoritratto con brioche;
-se capita di fare un viaggio con amici, magari in un paese lontano, farsi scattare almeno
una foto da un passante che, possibilmente, non parli nessuna delle lingue che si
conoscono.
Quello sì che sarà un ricordo.
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L’immagine di copertina rappresenta un gruppo di turisti che si fotografa al Victoria Peak Lookout il 25 Maggio, 2014, ad Hong Kong. La foto è apparsa sul Time in un articolo intitolato “How the selfie stick is killing the selfie” che potete trovare qui.
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