Jimmy Bobo – Bullet to the Head, Walter Hill dirige un Sylvester Stallone di razza regalandoci 85′ di grande cinema – Da oggi, nelle sale italiane
I’m a people person
Scanzonata, rigenerante scheggia impazzita dell’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma (ove è stato presentato in anteprima mondiale), del cui fallimentare concorso è stato fra i più veraci e genuini contraltari, Bullet to the Head continua il processo di destrutturazione postmoderna della mitologia e della poetica stalloniana, battendo il percorso autoriale inaugurato dall’attore newyorkese con l’inattesa palingenesi di Rocky Balboa e proseguito con il revival semi-crepuscolare di John Rambo e de I mercenari.
Trasformatosi progressivamente in una versione ottimista e proletaria del nichilismo eastwoodiano, oggi il cinema di Sylvester Stallone ribadisce orgogliosamente gli elementi e gli ingredienti ormai anacronistici che lo compongono e che lo differenziano notevolmente dalla deriva digital-anabolizzata dell’era Bay-Bruckheimer: a riprova di ciò, complice dell’operazione e presenza determinante del film è quel Walter Hill che nella seconda metà degli anni settanta e attraverso la rampante decade reaganiana forgiò considerevolmente l’identità dell’action statunitense, spaziando fra le derive peckinpahiane di Driver l’imprendibile, l’iconicità cult di I guerrieri della notte e il blockbuster di 48 ore, fino alla crisi creativa e ai clamorosi insuccessi commerciali degli anni novanta che decretarono il declino della sua filmografia.
Solo a inizio secolo, con il vigoroso e nerboruto Undisputed, il regista tornò alla sua forma migliore e riguadagnò l’attenzione dei critici, ma l’ennesimo flop al botteghino compromise una volta per tutte la sua carriera cinematografica, arrestatasi bruscamente e tradottasi solo televisivamente con la miniserie Broken Trail.
Chiamato sul set a rimpiazzare il più anonimo Wayne Kramer (di cui si ricorda il bel The Cooler), l’autore de I cavalieri dalle lunghe ombre si appropria dello script di Alessandro Camon, liberamente tratto dalla graphic novel francese Du plomb dans la tête, e lo riplasma come una scalpitante e irredenta elegia delle pellicole popolari che furono, zeppa di quelle componenti rudimentali, reazionarie e manichee così lontane e dissuete dal canone contemporaneo che, riviste ai giorni nostri, finiscono per sembrare paradossalmente una ventata di novità, o, se non altro, un sincero e affettuoso omaggio a metà fra nostalgia e rimpianto.
Bullet to the Head sembra provenire direttamente dall’epoca dei buddy cop à la Danko o dalle storie di vendetta in stile Johnny il bello, di cui pure ritorna lo sfondo distintivo della Louisiana e di New Orleans, con la consapevolezza di una dimensione eroica mai rassegnatasi all’incedere del tempo e certa di poter dire ancora la sua, fiera del proprio isolamento e della propria inattualità, con un protagonista che vive nella solitaria palafitta di una palude e si ostina ad ordinare al bancone del bar un liquore fuori produzione da decenni; un modello un po’ acciaccato, un po’ autoparodico, forse un po’ patetico, ma sempre e comunque vincente, una figura che, storicamente, ricalca quella dei Lee Marvin e dei John Wayne, la cui iconica frase “that’ll be the day” (da Sentieri selvaggi) funge da battuta di chiusura e da congedo per un archetipo consapevole della fine imminente (“you don’t live forever”, chiosa la voce narrante), ma non per questo disposto ad andarsene a testa bassa e a fare largo al nuovo che avanza.
Non a caso, il ferino villain Keegan è interpretato dall’hawaiiano Jason Momoa, il nuovo Conan, per l’appunto, emblema di una nuova leva che può ben poco di fronte alla pervicacia dei veterani (si pensi al ruolo del ventenne Liam Hemsworth ne I mercenari 2) e che finisce per soccombere soltanto alla fine di un primordiale, brutale duello a colpi di ascia, autentico apice teorico del film.
Walter Hill, insomma, ricerca con il suo Bullet to the Head il giusto punto di incontro fra intrattenimento e autorialità, imbastendo dialoghi pieni di potenziali one-liner e inscenando combattimenti e sparatorie con lo stesso spirito coreografico dei videoclip del suo sfortunato Strade di fuoco, firmando un’opera elementare e spassosa, ma tutt’altro che inconsistente o sconclusionata, rappresentativa di un artista che crede ancora nella purezza e nell’essenzialità del cinema di genere nonostante la diffidenza di molti, il grido di battaglia di un vecchio professionista che, con la morte dei Peckinpah, il ritiro dei Milius e il rincoglionimento dei Carpenter, non ha, come il suo personaggio, alcuna voglia di andare in pensione e di rifugiarsi nella vecchiaia.
Bullet to the Head, con i suoi 85 minuti netti, la sua totale assenza di pretese, il suo ruspante clima passatista e la sua cameratesca, sbruffonesca spensieratezza, è l’antidoto ottimale ai pachidermi CGI di ultima generazione e il modo ideale per godersi senza rimorsi e istupidimenti gli ultimi fuochi dell’action per come l’abbiamo conosciuto e secondo i principi fondativi che presto, purtroppo, diventeranno solo oggetti di modernariato.
[Per le splendide foto, i nostri sentiti ringraziamenti al nostro valente fotoreporter Eugenio Boiano! ;-) ]