Il primo figlio recensione approfondita e impatto emotivo nel cinema italiano contemporaneo

Tema e ambientazione del film
Il primo figlio di Mara Fondacaro si inserisce nel solco della tradizione gotica italiana, rivitalizzandola con un taglio contemporaneo e psicologico che esula dal solito horror spettacoloso. La trama ruota attorno al dolore irrisolto di una coppia, Ada e Rino, segnati dall’annegamento del figlioletto Andrea, e alla complessità emotiva che accompagna una nuova gravidanza carica di paura e angoscia. L’opera esplora la tensione esistenziale legata a scelte e sentimenti profondi, come evidenziato dalla citazione di Kierkegaard, in cui l’angoscia è intesa come sentimento legato al futuro e alle possibilità incerte. L’impostazione narrativa si muove tra l’intensità horror e la suspense psicologica, mantenendo un equilibrio che evita cliché e eccessi gore.
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Dal punto di vista scenografico, il film valorizza un’ambientazione naturale e suggestiva, scegliendo location molisane come il lago di Castel San Vincenzo e il Parco Oasi delle Mainarde, elementi che contribuiscono a creare un’atmosfera immersiva e inquietante. Questi spazi amplificano il senso di isolamento e mistero, elementi chiave per alimentare la tensione che si sviluppa tra i protagonisti. L’ambiente naturale diventa così un componente narrativo importante, non solo sfondo ma vero e proprio specchio delle turbolenze interiori e della fragilità umana che il lungometraggio intende raccontare.
Analisi dei personaggi e delle relazioni
Ada e Rino costituiscono il fulcro emotivo del film, due figure dominate da un dolore profondo e ancora incolmabile. Ada si presenta come una donna avvolta da un senso di colpa e angoscia persistente, incapace di elaborare il lutto per la perdita di Andrea, il loro primo figlio. La sua nuova gravidanza è accompagnata da un progressivo distacco dalla realtà condivisa: il ritorno del fantasma del bambino genera una tensione palpabile, amplificando la sua vulnerabilità e il conflitto interiore che cala sul rapporto di coppia. Il personaggio di Ada è tratteggiato con forza e delicatezza, rendendo credibile la sua discesa nell’angoscia senza scadere nel melodrammatico.
Rino, al contrario, incarna il ruolo del compagno pragmatico ma emotivamente distante, il quale fatica a comprendere l’ossessione di Ada verso il fantasma del figlio. La sua posizione di scettico aumenta la frattura tra i due, spingendo la relazione verso una crisi inevitabile. Il confronto quotidiano tra razionalità e delirio è reso con realismo, enfatizzando le dinamiche di incomunicabilità che si instaurano in situazioni di forte trauma.
La presenza dell’amica medium introduce un elemento perturbante che apre nuovi scenari narrativi, ma anche pericoli concreti. Attraverso questa figura si amplifica il tema del confine sottile tra realtà e soprannaturale, mentre le tensioni intrecciano aspettative, paure materne e minacce oscure.
Infine, la regia di Mara Fondacaro valorizza l’interpretazione sobria e partecipata di Benedetta Cimatti e Simone Liberati, la cui compostezza evita derive nel grottesco o nel banale, fornendo un ritratto sfaccettato e credibile di una coppia alla deriva nel proprio tormento.
Aspetti tecnici e interpretativi
Il primo figlio si distingue per una realizzazione tecnica curata nei dettagli, capace di sostenere efficacemente la tensione narrativa senza ricorrere a soluzioni facili o eccessi visivi. La regia di Mara Fondacaro si avvale della maestria del direttore della fotografia Fabio Paolucci, che conferisce alle immagini una qualità atmosferica perfettamente calibrata, con un uso sapiente di luci e ombre che amplificano il senso di inquietudine e isolamento. Il lavoro di Team VFX sugli effetti visivi è discreto ma incisivo, integrandosi in modo naturale nella narrazione e facilitando la sospensione dell’incredulità senza mai apparire invadente o artificioso.
Notevole è inoltre l’attenzione dedicata alla composizione delle inquadrature, che risultano studiate per enfatizzare lo stato emotivo dei personaggi e la progressiva discesa nella tensione psicologica. La scelta di evitare il ricorso a scene di forte violenza grafica e splatter evidenzia una precisa volontà autoriale di mantenere il film su un piano di sottile suggestione piuttosto che di shock visivo, optando per il potere evocativo di piccoli dettagli, come il makeup ispirato alle texture di Burri sul volto di Lorenzo Ferranto o gesti minimali che suggeriscono più di quanto mostrino.
Dal punto di vista interpretativo, il cast offre prove misurate e assolutamente convincenti. Benedetta Cimatti riesce a veicolare con autenticità il turbamento e la fragilità di Ada senza cadere in eccessi emotivi, mentre Simone Liberati interpreta un Rino che incarna la razionalità scettica ma sospesa tra empatia e incomprensione, contribuendo a bilanciare il racconto tra psicodramma e thriller. L’interazione tra i due protagonisti mantiene un ritmo calibrato, evitando cliché e mantenendo viva la tensione attraverso scambi sottili e realistici.




