Google e il monopolio: perché chiudere Chrome e Android non è la soluzione definitiva

La strategia antitrust del Department of Justice contro Google
La strategia adottata dal Department of Justice (DoJ) americano nei confronti di Alphabet mira a smantellare il potere monopolistico di Google concentrandosi sulla cessione forzata di strumenti chiave come il browser Chrome e il sistema operativo Android. Si tratta di un tentativo di impedire che Google mantenga il controllo esclusivo sui mercati cruciali delle ricerche online e della pubblicità digitale. Tuttavia, questo approccio risolve solo parzialmente la questione, dal momento che l’essenza del predominio di Alphabet risiede nell’ecosistema di raccolta dati che sostiene questi prodotti, non nei singoli software in sé.
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Il DoJ ordina a Google di vendere Chrome e Android, impedendo operazioni che permettano un controllo indiretto sui mercati di riferimento. Sebbene significhi una drastica iniezione di concorrenza sul piano tecnico, lascia intatta la capacità di Alphabet di sfruttare il proprio ecosistema integrato di gestione delle informazioni. Infatti, la sinergia tra browser e servizi ad esso collegati rappresenta la leva che consente a Google di dominare il settore pubblicitario.
È importante notare che Chrome si basa sul progetto open source Chromium, condiviso anche con altri browser come Brave, Avast Secure Browser e Microsoft Edge. Questo codice aperto permette lo sviluppo di browser indipendenti, ma la reale disuguaglianza deriva dall’integrazione esclusiva che Google realizza nelle proprie versioni, in particolare attraverso avanzati sistemi di tracciamento utenti e gestione dei dati personali. Chromium infatti non include funzionalità proprietarie essenziali che caratterizzano Chrome, rendendo così inefficace una mera scissione o vendita del browser come soluzione definitiva.
A differenza del passato, quando si trattava di fare i conti solo con differenze tecniche tra browser, oggi il vantaggio competitivo di Google non risiede nella sua quota di mercato di Chrome, bensì nell’ecosistema integrato di dati che alimenta la sua posizione dominante. Quindi, obbligare Alphabet a vendere Chrome o Android senza affrontare l’accesso ai dati e il modo in cui sono gestiti e sfruttati, rischia di lasciare intatto il problema di fondo, consentendo a Google di mantenere un vantaggio competitivo insormontabile in chiave monopolistica.
L’ecosistema Google oltre Chrome e Android
Il fulcro del dominio di Alphabet non risiede semplicemente in Chrome o Android, ma nella capacità unica dell’intero ecosistema Google di raccogliere, gestire e sfruttare i dati degli utenti. La cessione forzata di singoli componenti come il browser o il sistema operativo non impedirebbe a Google di lanciare nuove soluzioni con analoghe capacità di integrazione e tracciamento, mantenendo così la sua posizione dominante. Questo perché il vero vantaggio competitivo deriva dalla rete di servizi interconnessi che alimentano una raccolta dati estremamente efficiente e difficilmente replicabile dai concorrenti.
La piattaforma Chromium, pur essendo open source e alla base di vari browser concorrenti, non contiene le personalizzazioni di Google, in particolare quei sistemi proprietari di tracciamento che costituiscono il fulcro dell’arsenale di Alphabet. Ciò significa che anche una vendita forzata di Chrome non implicherebbe la dissoluzione del potere monopolistico, poiché Google potrebbe continuare ad innovare attorno ad un ecosistema chiuso e altamente integrato con i propri strumenti di raccolta dati.
In modo analogo, Android rappresenta un sistema operativo open source nella sua versione base, ma la sua forza deriva dai servizi aggiuntivi sviluppati e distribuiti da Google, che modellano l’esperienza utente e consentono un livello di controllo e raccolta dati senza precedenti. L’esperienza di Huawei ha mostrato che privare un dispositivo dei servizi Google limita fortemente le sue capacità di accesso e di integrazione con l’ecosistema, mentre il nucleo open source non garantisce da solo la piena competitività.
La discussione centrale, quindi, non dovrebbe concentrarsi su singoli prodotti ma sul modello di controllo integrato dei dati, che consente ad Alphabet di mantenere posizione di monopolio nonostante eventuali spinte antitrust che toccano componenti visibili ma non l’intera infrastruttura sottostante. Ogni intervento efficace deve quindi andare oltre la frammentazione forzata, prevedendo regole che delineino diritti, trasparenza e accesso al flusso informativo alla base del suo potere.
La tutela dei dati degli utenti e il ruolo dell’Europa
Il dibattito sulla tutela dei dati personali degli utenti vede in Europa un ruolo potenzialmente decisivo, ma finora l’azione delle autorità di protezione è risultata timida e insufficiente rispetto alle sfide poste dal dominio di Google. Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) conferisce poteri extraterritoriali alle autorità europee, potenzialmente in grado di monitorare e regolamentare come i dati vengono raccolti e gestiti dai giganti tecnologici. Tuttavia, la complessità delle architetture tecnologiche alla base di servizi come Chrome e Android rende difficile un controllo efficace senza una comprensione profonda e trasparente dei flussi informativi.
Invece di affermare un ruolo rigoroso di vigilanza e trasparenza, le autorità europee si sono spesso limitate a un’attività di facciata, demandando alle complesse informative privacy il compito di informare gli utenti. Queste informative sono quasi sempre lunghe, criptiche e poco fruibili, tanto da risultare inefficaci nel fornire consapevolezza reale sull’uso e la commercializzazione dei dati personali. Di fatto, si assiste a una mercificazione silente dei diritti digitali dei cittadini, con scarsi tentativi di imporre un effettivo potere di scelta e controllo agli utenti.
La ragion di stato e le logiche geopolitiche complicano ulteriormente il quadro. In un contesto globale segnato da crescenti tensioni tra Stati Uniti e Unione Europea, la volontà di non compromettere rapporti strategici con big tech statunitensi come Google sembra frenare interventi più incisivi. Gli effetti di una regolamentazione dura rischierebbero infatti ritorsioni economiche o tecnologiche da parte di Washington, disincentivando Bruxelles dal prendere posizioni drastiche sui temi della sovranità digitale e della protezione degli utenti.
Questo scenario però lascia gli utenti europei in una condizione di vulnerabilità, ridotti a meri “oggetti” di raccolta dati più che a soggetti titolari di diritti digitali effettivi. Solo una strategia europea che integri la tutela della privacy con politiche antitrust incisive potrà invertire questa tendenza e creare le condizioni per un mercato digitale realmente competitivo e rispettoso dei diritti fondamentali.
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