Cyberbullismo e educazione al digitale: una riflessione
Nel corso dell’ultima settimana una notizia è circolata, passando forse troppo in sordina, riguardante la scuola e il digitale. Il Preside di un istituto di Parma, Pier Paolo Eramo, stanco dei bulli che negli ambienti online trovano nuovi spazi per attaccare, ha pubblicato i messaggi di una chat fra due suoi studenti.
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A leggerli, portano a schierarsi subito dalla parte del preside. “Ha fatto bene!” penserà qualcuno di fronte a tanta volgarità e gratuita cattiveria.
Ma fermasi al giudizio morale risulta limitante in un fatto che, invece, nasconde profonde complessità. Se il punire gli episodi di bullismo che accadono fra le mura scolastiche è un atto dovuto e necessario, come ci si deve comportare se questo si consuma su una chat o un gruppo WahtsApp?
Il primo pensiero che si dovrebbe fare è: lo spazio all’interno del quale l’atto di bullismo prende forma è uno spazio pubblico o privato? E se la scuola può prendersi l’impegno di punire l’atto in sé, è corretto rispondere alla cattiveria e alla maleducazione con la pubblica gogna digitale?
C’è una grande differenza fra il far capire a un ragazzo che si sta comportando nel modo sbagliato e invadere spazi che, sebbene per molti sia difficile comprenderlo, rappresentano nuovi momenti privati. In questo caso non si sta giudicando il comportamento del preside ma si sta riflettendo sulla generale comprensione ed educazione di adulti e ragazzi al digitale. Che differenza c’è fra un messaggio in una chat?
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Un’offesa lasciata in una bacheca pubblica e un tweet di un bullo? Hanno tutti la stessa valenza? Sebbene siano tutti egualmente gravi, su quali deve intervenire la scuola e su quali, invece, devono essere prima i genitori ad agire?
Quando si parla di privacy l’argomento si complica ulteriormente se si pensa alla dimensione dei ragazzi, minorenni e sotto la tutela dei genitori. Cosa potrebbe semplificare le cose? L’educazione al digitale potrebbe essere la migliore soluzione per far capire ai ragazzi diritti e doveri sul web, rischi e opportunità.
Così come una maggior collaborazione fra genitori, insegnanti e alunni. Se viviamo in un’epoca in cui la parola d’ordine, almeno in linea teorica, è trasparenza allora è proprio dai ragazzi che si deve iniziare a insegnarla, così come si deve spiegare che un atto di bullismo non è più lecito o meno grave se consumato online.
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Molte sono le possibilità: costruire un codice etico per l’uso degli ambienti online, insegnare la differenza fra uso e abuso, spiegare come e perché anche un atto online può essere poi punito nella realtà offline. Non è gridando allo scandalo del cyber bullismo, incolpando Internet e gli smartphone che insegneremo ai giovani a essere buoni cittadini digitali. Non è invadendo la loro privacy pubblicamente che creeremo consapevolezza e voglia di comportarsi in modo migliore.
Ciò che accade online accadeva prima (e accade ancora) anche nella vita offline e alle due realtà, ormai sempre più connesse, andrebbero applicate regole simili e simili trattamenti. Vedere una chat fra ragazzi pubblicata a livello nazionale è un atto preoccupante poiché sottolinea la leggerezza con cui uno scambio di messaggi privati viene trattato e indica una fondamentale incomprensione degli ambienti digitali.
Se non si può fuggire alle evoluzioni tecnologiche si può decidere di essere utili a un’evoluzione “buona” di questi nuovi ambienti. Forse questo è un concetto idealista ma credo sia soprattutto l’educazione digitale, degli alunni, dei professori, dei genitori a essere la cosa che qui risulta come fondamentale.
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Costruire conoscenza e strumenti comuni per i ragazzi e i professori, per sapere come agire e difendersi anche negli ambienti online.
Abbiamo un’Agenda Digitale, proposte per una Buona Scuola, siamo nel 2015 e se non educhiamo al digitale oggi perdiamo l’occasione di costruire una società migliore, più consapevole, partecipativa e aperta al confronto.
E ne abbiamo davvero bisogno.
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