La recensione di Gambit Una truffa a regola d’arte con Colin Firth, Cameron Diaz ed il grande Stanley Tucci si tuffano nel remake.
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Harry Deane (Colin Firth) è un curatore d’arte che, vessato dalle numerose angherie del suo eccentrico capo Lord Lionel Shahbandar (Alan Rickman), decide di organizzare la frode perfetta ai suoi danni. L’escamotage è semplice: solleticarne le velleità di collezionista d’arte portando alla sua attenzione un Monet – “Covoni effetto notte” dato pressoché per perduto. Il quadro in questione dovrà ricomparire misteriosamente nella roulotte dell’affascinante regina del rodeo P.J. Puznowski (Cameron Diaz), reclutata come complice d’eccezione. Non resterà che fare in modo che la tela – in realtà una banale riproduzione – venga rilevata dall’ignaro acquirente per poi godere del ricco bottino in tutta tranquillità. Purtroppo qualcosa non andrà esattamente come pianificato. Gambit è il remake dell’omonimo film del 1966, dal titolo Gambit – grande furto al Semiramis che vedeva protagonista un giovane Michael Caine nei panni del ladro gentiluomo.
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Sulla carta, la pellicola promette di essere una piacevole commedia degli equivoci, avendo come ottima premessa la sceneggiatura dei fratelli Ethan e Joel Coen ed un cast ben assortito. Tuttavia, una volta in sala, ci si ritrova a fare i conti con una serie di carenze che la penalizzano e non le permettono di esprimere tutte le sue potenzialità.
Il tallone d’Achille del film è senza alcun dubbio la sceneggiatura, che sembra aver risentito delle numerose modifiche subite negli anni (il progetto, passato di mano più volte, era infatti in attesa di green light da diverso tempo).
I Coen tentano in tutti i modi di dar vita ad una brillante commedia degli equivoci ma si perdono nell’infarcirla di innumerevoli cliché, gag e stereotipi che sanno di già visto e non riescono ad eguagliare la garbata versione del 1966.
La chiave comica vorrebbe essere quella della contrapposizione tra il compassato Harry Deane e la sua spumeggiante controparte texana, uniti dal comune intento di far acquistare a Lord Shabandar il taroccatissimo “Covoni effetto notte”.
I personaggi vengono però eccessivamente caratterizzati e posti in situazioni che – benché esilaranti e talvolta piacevoli per lo spettatore – non sono affatto funzionali alla storia. Anzi le remano pesantemente contro.
Il magnate della comunicazione si ritrova così a far uso di sistemi d’allarme altamente improbabili e la cowgirl gira per le strade di Londra abbigliata come da miglior tradizione con cappello e lazo. Ce n’è davvero per tutti i gusti.
Anche i comprimari – tra i quali è impossibile non citare l’ottimo Stanley Tucci nelle vesti della controparte teutonica di Dean – soffrono della penuria di idee: i giapponesi amano il karaoke e elargiscono citazioni zen, le cameriere nascondono superalcolici negli sgabuzzini, le signore dell’alta società emettono peti sonori e così via.
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A pagarne le conseguenze è l’azzeccato cast, che si ritrova a dover seguire una trama col singhiozzo senza riuscire a trovare una chimica o padroneggiare sino in fondo le motivazioni dei personaggi.
Colin Firth interpreta con qualche difficoltà l’imbranato esperto d’arte riscopertosi sadico truffatore mentre Cameron Diaz riesce a sostenere a fatica il ruolo dello zuccheroso cliché texano trapiantato in terra inglese. Persino il grande caratterista Alan Rickman, solitamente a suo agio in panni ben più perfidi ed impegnativi, si arrende e capitola di fronte alle numerose trovate narrative ideate a suo discapito.
Ne risulta una pellicola discontinua che si conclude senza lode e senza infamia, lasciando allo spettatore il compito di capire se la truffa promessa ci sia stata. E soprattutto ai danni di chi.
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