Buco nell’ozono scoperta storica: come è stato identificato il problema oltre 40 anni fa

La scoperta del buco nell’ozono
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La scoperta del buco nell’ozono rappresenta una delle svolte più significative nella storia della scienza ambientale. Era il 16 maggio 1985 quando un gruppo di ricercatori pubblicò i risultati di uno studio che evidenziava un marcato assottigliamento dello strato di ozono sopra l’Antartide, evento destinato a cambiare radicalmente la comprensione dell’impatto delle attività umane sull’atmosfera terrestre. Questa scoperta fu il frutto di rigorose osservazioni e analisi condotte con strumenti all’avanguardia, rivelando un problema fino ad allora sconosciuto che minacciava la protezione naturale contro le radiazioni ultraviolette del sole. I dati, attentamente verificati, diedero avvio a una nuova fase di studio e prevenzione ambientale a livello globale.
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Nell’analisi delle misure ottenute con lo spettrofotometro Dobson, che monitora la quantità di raggi UV filtrati dall’ozono, si evidenziò un calo significativo e anomalo della concentrazione di ozono durante la primavera antartica. Inizialmente, gli scienziati pensarono che potesse trattarsi di un’anomalia isolata, ma la continuità e l’ampiezza del fenomeno presto convinsero che fosse un fenomeno reale e allarmante. La riduzione dello strato di ozono era improvvisa e consistente, con perdite fino a un terzo rispetto ai livelli rilevati nei decenni precedenti, un chiaro segnale del degrado di quella barriera atmosferica essenziale per la vita sulla Terra.
Questa scoperta, avvenuta in una regione remota e poco frequentata come l’Antartide, gettò luce su un problema globale fino ad allora sottovalutato. In particolare, rese evidente come sostanze chimiche di origine antropica, come i clorofluorocarburi, avessero un impatto diretto e devastante sullo strato protettivo di gas, aprendo la strada a una mobilitazione scientifica e politica internazionale senza precedenti.
Il ruolo degli scienziati del British Antarctic Survey
Il British Antarctic Survey (BAS) ha svolto un ruolo cruciale nella scoperta del buco nell’ozono grazie al lavoro instancabile di tre scienziati: Joe Farman, Brian Gardiner e Jon Shanklin. Operando dalla remoto avamposto della Halley Research Station sulla piattaforma di ghiaccio di Brunt, nel cuore dell’Antartide, il team condusse un monitoraggio costante e meticoloso dello strato di ozono. La rilevazione fu possibile mediante l’utilizzo dello spettrofotometro Dobson, strumento essenziale per misurare la quantità di radiazione UV che la colonna d’aria trattiene, permettendo così di quantificare il contenuto di ozono atmosferico.
Jon Shanklin, il principale responsabile della gestione e dell’analisi dei dati, ricorda come inizialmente fosse difficile sottrarre informazioni precise da un archivio di misurazioni accumulate per anni in modo non sistematico. Attraverso un’attenta revisione e rielaborazione dei dati, il team si accorse che i valori di ozono primaverile registravano un calo netta, un fatto che all’inizio si pensava limitato a particolari condizioni ambientali locali. L’atteggiamento scettico iniziale lasciò presto spazio alla consapevolezza di un evento reale e anomalo, con una diminuzione significativa e ripetuta negli anni dal tardo decennio ’70.
Il lavoro degli scienziati del BAS non si limitò alla semplice raccolta dati ma si estese alla verifica rigorosa e alla conferma della portata globale della minaccia. Il loro approccio metodico rappresentò un modello di ricerca scientifica trasparente e rigorosa, ponendo basi solide per ulteriori indagini. Senza il loro impegno e la capacità di interpretare correttamente dati complessi, la scoperta del buco nell’ozono sarebbe rimasta un’anomalia locale e poco presa in considerazione.
Dal buco nell’ozono al Protocollo di Montreal
La diffusione della scoperta del buco nell’ozono spinse la comunità scientifica a un rapido confronto e conferma indipendente dei dati raccolti dal British Antarctic Survey. Studi successivi evidenziarono rapidamente che l’assottigliamento dell’ozono non era un fenomeno isolato ma si estendeva su un’area immensa di circa 20 milioni di chilometri quadrati sopra l’Antartide. Gli esperti individuarono con chiarezza nei clorofluorocarburi (CFC), utilizzati comunemente come refrigeranti e propellenti per spray, la causa principale della distruzione dello strato di ozono, grazie alle loro proprietà chimiche che liberano atomi di cloro nell’atmosfera, responsabili della reazione di decomposizione dell’ozono stesso.
Questa consapevolezza scatenò una risposta internazionale senza precedenti. Nel 1987, a solo due anni dalla pubblicazione dell’articolo su Nature, venne adottato il Protocollo di Montreal, un trattato multilaterale che impose una riduzione immediata della produzione e dell’uso delle sostanze ozono-lesive, con l’obiettivo di stabilizzare i livelli di emissione al valore del 1986.
Il Protocollo non solo fu un successo diplomatico, ma divenne un modello di collaborazione scientifica e politica, aggiornato progressivamente per includere nuovi contaminanti e sostituti chimici. Attuando un’efficace regolamentazione globale, il protocollo ha evitato danni ambientali gravi e permesso una lenta ma costante rigenerazione dello strato di ozono. Nonostante i progressi, gli scienziati prevedono il completo recupero solo entro la fine di questo secolo, segnalando quanto sia profondo e duraturo l’impatto causato da decenni di uso indiscriminato di sostanze chimiche dannose.
La scoperta, inizialmente confinata a una regione remota, ha quindi determinato una trasformazione radicale delle politiche ambientali a livello globale, impattando direttamente l’industria chimica e i comportamenti umani, e rappresentando uno dei più grandi successi della scienza applicata alla tutela dell’ambiente.
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