La sessantatreesima edizione del Festival di Berlino si è aperta con una sola, sconfortante certezza: dopo il legittimo e ampiamente insperato trionfo dell’inverno passato, l’Italia non ripeterà il formidabile exploit degli anni settanta avvenuto con le consecutive vittorie de Il giardino dei Finzi-Contini e de I racconti di Canterbury, ma si limiterà a qualche gettone di presenza disseminato per le sezioni non competitive della rassegna, dai documentari gastronomici Couscous Island e Slow Food Story, introdotti opportunamente nella vetrina di Kulinarischen Kino, alla esibizione in pompa magna de La migliore offerta di Giuseppe Tornatore nella celebrativa selezione Berlinale Special.
A contendersi l’Orso d’Oro sarà invece un ventaglio di titoli in prevalenza statunitensi o francesi, diciannove pellicole equamente assortite fra scandali annunciati, garanzie della sfera indipendente occidentale, cinematografie periferiche in ascesa e promesse di un est-Europa in via di consacrazione: ad aprire il concorso saranno infatti la polacca Malgoska Szumowska, co-produttrice di Antichrist affacciatasi internazionalmente con il pretenzioso e scadente Elles, che torna alla regia con i tormenti di un prete omosessuale nel fassbinderiano W imię… (Nel nome), il veterano Gus van Sant, che, come ulteriore tappa di una carriera astutamente divisa fra coerenza autoriale e tentazioni mainstream, si presenta con il militante Promised Land (da noi in sala già da oggi, giovedì 14 febbraio), crociata ambientalista che avrebbe dovuto essere l’approdo alla regia del suo protagonista Matt Damon, e l’ubiquo Ulrich Seidl, autentico mattatore dei festival europei degli scorsi 9 mesi, che con Paradies: Hoffnung (Paradiso: Speranza) porta a compimento la sua personalissima trilogia sulle virtù teologali in un campo estivo per giovani sovrappeso, dopo aver sconvolto la Croisette con il turismo sessuale di Liebe ed essersi aggiudicato, dopo infinite e gratuite polemiche, il Gran Premio della Giuria a Venezia con il sacrilego Glaube.
Ci si sposta in Russia per il quarto film in competizione, il rurale Dolgaya Schastlivahya Zhizn’ (Una vita lunga e felice), che con l’omonimo capolavoro di Gennady Shpalikov non ha nulla a che fare, e con cui il giovane autore Boris Khlebnikov medita di estendere globalmente il credito conquistato dal suo Koktebel’, rivelazione e Premio Fipresci al Festival di Mosca del 2003; il regista di origini turche Thomas Arslan, dopo i pruriti polar melvilliani di Im Schattensbarca oltreoceano con gli avventurieri tedeschi in Canada e le suggestioni western di Gold, mentre il tappeto rosso comincerà a farsi più glamour con lo sporco, aronofskyiano debutto del videoclipparo Fredrik Bond The Necessary Death of Charlie Countryman, che, specularmente alla pellicola precedente, vede le disavventure di un giovane cittadino americano alle prese con un’inospitabile Vecchio Continente, più precisamente il sottobosco criminale di Bucarest.
Si continuerà con il francese La Religieuse, nuovo adattamento per il grande schermo dell’omonimo romanzo di Denis Diderot dopo l’illustre antecedente di Jacques Rivette, questa volta passato per le mani di Guillaume Nicloux; il Cile, dopo l’affermazione definitiva di Pablo Larrain (quest’anno in cinquina agli Oscar con il suo eccezionale No), promuove il talento emergente di Sebastián Lelio con la sua tragicommedia al femminile Gloria, grande successo al Festival di San Sebastian e trionfatore nella sezione Films in Progress; Vic+Flo ont vu un ours (Vic e Flo hanno visto un orso), è il nuovo capitolo della filmografia bizzarra e imprevedibile del canadién Denis Coté, una storia d’amore a tratti lynchiana nella quale il critico e cineasta sperimentale del New Brunswick, già a partire dal titolo, infonde tutta la sua eccentricità.
Calin Peter Netzer partecipa con la colta, caustica discesa agli inferi di Pozitia Copilului (Posa da bambino), in cui l’istituzione legale e giudiziaria rumena vengono ferocemente fatti a pezzi lungo la cronaca delle funeste conseguenze di un incidente stradale; Layla Fourie è un thriller politico tradizionale fortemente connotato dall’ambientazione e dall’ascendenza sudafricana della regista europea di adozione Pia Marais.
Giro di boa della manifestazione sarà con tutta probabilità martedì 12, per il quale sono previsti i concorrenti sulla carta più interessanti: c’è grande attesa per la proiezione di Side Effects, neo-noir erotico che annovera Jude Law e Rooney Mara fra i suoi protagonisti e che il prolifico e schizofrenico Steven Soderbergh ha da tempo descritto – salvo opportuni ripensamenti – come conclusione della propria carriera da regista cinematografico, mentre il franco-fiammingo Bruno Dumont, pupillo cannense e vincitore di due Grand Prix, riporta sullo schermo, con tutte le consuete provocazioni del caso, le tormentate vicissitudini sentimentali e private della celebre scultrice e amante di Auguste Rodin in Camille Claudel, 1915, con una ritrovata Juliette Binoche nel ruolo che fu un quarto di secolo fa di Isabelle Adjani. La sorpresa più eclatante verrà dall’Iran e dal suo eminente rappresentante Jafar Panahi, Leone d’Oro a Venezia 57 e fresca vittima della censura islamica, da cui è stato recentemente condannato a sei anni di reclusione e a vent’anni di interdizione dalla dimensione pubblica: Parde (Closed Curtain – Sipario chiuso) è la sua prima opera di fiction prodotta a sentenza emessa, dopo il “documentario” This Is Not a Film, circolato illegalmente per i maggiori festival internazionali nell’ultimo biennio, e una pesante infrazione al regime di isolamento imposto dal tribunale.
Il premio Oscar Danis Tanovic, il più famoso metteur en scene serbo, attraverserà per la prima volta la Porta di Brandeburgo con il piccolo Epizoda u zivotu beraca zeljeza (Momenti di vita di un raccoglitore di ferro), ritratto di ordinaria miseria a due passi dalla non-fiction, in cui a rivivere sulla scena le tragiche circostanze di una gravidanza interrotta sono gli stessi protagonisti della vicenda; l’americano David Gordon Green, a suo tempo precoce e riconosciuto emulo del cinema di Terrence Malick, tenta di far dimenticare i suoi recenti abomini commerciali realizzati su commissione (valga per tutti l’inclassificabile Lo spaventapassere) con l’agrodolce, nostalgica commedia sull’amicizia virile Prince Avalanche, remake dell’islandese Á Annan Veg; lontano dai riflettori e dal circuito maggiore provengono invece provengono invece il ventottenne kazako Emir Baigazin, che con il suo esordio Uroki Garmonii (Lezioni di armonia) ha dato austeramente vita a una dimensione adolescenziale dominata da violenza e prevaricazione, e il sudcoreano Hong Sangsoo, presenza fissa a Cannes nello scorso triennio e artefice del tenero e onirico dramma sentimental-diaristico Nugu-ui Ddal-do Anin Haewon (Haewon, figlia di nessuno), con cui, anche grazie al vasto consenso della critica per il precedente Da-reun na-ra-e-suh (In Another Country), sembra aver già prenotato un posto sul Palmares.
Si tornano a vedere volti conosciuti nel film di chiusura della selezione, nello specifico quello di Catherine Deneuve, protagonista di Elle s’en va (Lei se ne va), malinconico road movie femminista diretto dalla parigina Emmanuelle Bercot.
A vigilare su tutto sarà una giuria a maggioranza femminile, composta dalla danese Susanne Bier (premio Oscar per In un mondo migliore e ospite l’anno scorso in laguna con la cartolinesca maxi-produzione Love Is All You Need), l’americana Ellen Kuras, celebrata direttrice della fotografia di Michel Gondry, la fotografa e video-installatrice iraniana Shirin Neshat (Leone d’Argento a Venezia66 per il suo – ad oggi – unico progetto filmico Donne senza uomini) e da Athina Rachel Tsangari, la più brillante esponente della New Wave greca, che tre anni or sono folgorò la platea lidense con il suo svampito e irresistibile Attenberg; a completare l’equipe saranno il cineasta locale Andreas Dresen – di cui si ricorda soprattutto l’iperrealistica fantasia sulla sessualità senile Settimo cielo, l’attore americano sulla via del pre-pensionamento Tim Robbins e, naturalmente, l’insigne presidente Wong Kar-Wai, probabilmente il più prezioso, peculiare e rappresentativo alfiere della cinematografia di Hong Kong di sempre, che per l’occasione sfodera fuori concorso il suo attesissimo ritorno dietro la macchina da presa The Grandmaster, ambizioso film di arti marziali iniziato nel 2009, terminato nel 2011 e finito di montare soltanto pochi mesi fa.
E in un’edizione caratterizzata dai ritorni inattesi sono altri due special guests di vaglia a ricordarci la forza perpetuante del cinema: Richard Linklater chiude (?) con Before Midnight il ventennale romanzo di formazione relazionale dei suoi Jesse (Ethan Hawke) e Celine (Julie Delpy) inaugurato nel 1995 da Before Sunrise (Prima dell’alba) e proseguito nel 2004 con Before Sunset (Prima del tramonto), con cui i suoi eroi ormai quarantenni si confrontano con la concretizzazione dei loro sogni di gioventù, mentre l’olandese George Sluizer, a quasi vent’anni dall’interruzione forzata delle riprese, conclude e presenta per la prima volta al pubblico il suo incompleto Dark Blood, ultima interpretazione dello sfortunato, talentuosissimo River Phoenix, la cui morte improvvisa durante la produzione riesce ad essere, per poco meno di un’ora e mezza, magicamente dimenticata.