Balletto. Tre grandi maestri del Novecento in Scala

— di Chiara Pedretti —
Tradizione e modernità, tutù e non: una serata mista al Teatro alla Scala, all’insegna della danza classica e della contemporanea, con tre diverse coreografie di altrettanti coreografi del Novecento.
Apre la serata
Études di Harald Lander, su musica di Carl Czerny, che torna in Scala dopo vent’anni. Danese, classe 1905, per anni primo ballerino del Balletto Nazionale Danese fino al suo ritiro nel 1945, ne diviene Direttore fino al 1952; avendo lavorato anche con Mikhail Fokine, porta in repertorio alla compagnia non solo i classici casalinghi di August Bournonville, ma anche quelli del coreografo russo naturalizzato statunitense come La Sylphide, Petruška ed Il Principe Igor r
. Coreografo di una trentina di balletti, è noto soprattutto per Études, atto unico, che debutta nel 1948. La sua carriera con il Balletto Reale Danese giunge
bruscamente al termine nel 1951, quando gli vengono mosse numerose accuse di comportamenti
inappropriati da parte di diverse ballerine, più quelle di cattiva gestione della compagnia. Si trasferisce quindi a
Parigi, dove lavora come Maître de Ballet prima e come direttore della Scuola di Danza dell’Opéra di Parigi
poi. Dal 1963 lavora come coreografo e répétiteur freelance per compagnie di alto profilo, aprendo anche una
propria scuola di danza a Parigi; muore nel 1971 per leucemia.
Études
è la rappresentazione in scena del lavoro quotidiano del danzatore: la sbarra, con tutta la
sequenza di esercizi che sono il pane di ogni coreutico. Come se si assistesse ad una lezione aperta in
un’accademia di danza, viene proposta una serie di esercizi molto varia, complessa ed articolata, che richiede
una grande attenzione tecnica: pensato per ventiquattro danzatrici (dodici in bianco e dodici in nero), dodici
danzatori, una ballerina principale e tre ballerini principali, quaranta minuti di pura tecnica, tra tendus, jetés,
ronds des jambes, diagonali, salti pirouettés e piccoli accenni di repertorio. Fisicamente, un massacro. Il
terzetto solista vede protagonista Nicoletta Manni, con il primo ballerino Timofej Andrijashenko ed il solista
Navrin Turnbull: beata fra i biondi, l’étoile di casa è perfettamente a suo agio in questo tipo di coreografia,
essendo lei una classica pura; i due biondi, appunto, come angeli custodi le fanno da ali saltando e girando in
continuazione. Il Corpo di Ballo fa il suo, in un intreccio molto complicato non solo coreografico ma anche di
entrate/uscite.
Segue un capolavoro del nostro tempo,
Petite Mort
del grande Jiří Kylián su musica di Mozart. Classe
1947, ceco di Praga, vince una borsa di studio alla Royal Ballet School di Londra ma entra poi a far parte dello
Stuttgart Ballet nel 1968, iniziando anche a lavorare come coreografo sotto la supervisione di
nientepopodimeno che John Cranko. Nel 1976 diventa Direttore Artistico del Nederlands Dans Theater ad
Amsterdam, e si dimostra uno dei più prolifici ed inventivi coreografi del dopoguerra. Il suo stile è una ricerca
continua di esplorazione dei limiti, delle capacità dello spazio, della flessibilità del corpo; è fondamentale il
movimento, interpretato liberamente, ma pur sempre legato a uno stile solido, infatti, ne è incredibile la
purezza della danza su cui egli carica emozioni e tradizioni popolari. Nel 1991 crea la propria compagnia,
Nederlands III, che accoglie ballerini sopra i quarant’anni.
Petite Mort
fu composta per il Festival di Salisburgo del 1991, in occasione dei duecento anni della
morte di Mozart, per sei uomini, sei donne, e sei fioretti, che hanno la funzione di essere veri partners danzanti
e talvolta di sembrare più indisciplinati e ostinati di un partner in carne e ossa. Un fluido inanellarsi di momenti
di gruppo e splendidi passi a due dalle diverse tonalità, da quella lirica a quella appassionata ed aggressiva,
creato sulle sezioni lente di due tra i Concerti per Pianoforte e Orchestra più belli e famosi del compositore
austriaco.
Le sei coppie sono qui Stefania Ballone con Matteo Gavazzi, Marta Gerani con Marco Messina,
Francesca Podini con Gioacchino Starace, Antonella Albano con Darius Gramada, Martina Arduino con
Gabriele Corrado e Maria Celeste Losa con Edoardo Caporaletti, accompagnati al pianoforte dal Maestro
Takahiro Yoshikawa. L’esecuzione è all’altezza, con intrecci complessi, prese impegnative e musicalità non
sempre facile.
Travolgente, almeno in teoria, la chiusura della serata, con
Boléro
di Maurice Béjart. Un coreografo
incredibile, con uno stile solo suo, che con i suoi occhi demoniaci continua ad incantare generazioni e
generazioni di danzatori e non solo. Francese, classe 1927, forse non tutti sanno che il suo vero cognome era
Berger, ma prese il nome d’arte
Béjart
dal cognome della moglie di Molière, Armande Béjart, drammaturgo
che fu per lui un punto di riferimento. Dopo aver visto uno spettacolo di Serge Lifar, decide di consacrarsi
completamente alla danza, studiando all’Opéra di Parigi, e si dedica alla coreografia fin dal 1951, quando crea
il suo primo balletto,
L’Inconnu
. Nel 1955 fonda la sua prima compagnia, i Ballets de l’Étoile, per cui crea
Symphonie Pour Un Homme Seul
; notato dall’allora Direttore del Théâtre Royal de la Monnaie fonda nel 1960
a Bruxelles il Ballet du XXe Siècle, con il quale percorre il mondo intero iniziando alla danza un vasto pubblico.
Nel 1987, al termine di un conflitto aperto con l’allora Direttore del Teatro della La Monnaie, Béjart decide di
non tornare più in Belgio dalla tournée in corso: poco dopo, la Philip Morris International, con sede a Losanna,
gli propone di stabilirsi in Svizzera; fu così che. Béjart scioglie il Ballet du XXe Siècle e fonda una nuova
compagnia, il Béjart Ballet Lausanne. Desideroso di dare nuovo vigore alla danza maschile, pretende dai suoi
interpreti una perfetta padronanza della danza accademica ed una grande capacità di adattamento alle
correnti neoclassiche. Fedele ad un’idea di spettacolo globale, mescola l’universo musicale, lirico, teatrale e
coreografico mettendo in evidenza le qualità individuali dei solisti ed esigendo allo stesso tempo il massimo
dai movimenti d’insieme. Affronta tematiche spesso universali, mettendo in scena anche i grandi problemi
dell’attualità, come l’AIDS o l’ecologia. Béjart è stato anche accusato di essere troppo classico, ma ha
contribuito enormemente alla nascita della danza contemporanea in Europa e non solo, grazie alle sue
importanti realizzazioni ed anche grazie alle generazioni di danzatori formatisi alla sua Scuola Mudra (a
Bruxelles) e poi Rudra (a Losanna), che ha sfornato, tra gli altri, Maguy Marin ed Anne Teresa De
Keersmaeker e che è ancora oggi una delle scuole più prestigiose in Europa. Ci ha lasciato nel 2007.
Boléro
su musica di Maurice Ravel è forse la sua opera più nota: esprime la vocazione al
monumentale, all’ecumenismo, è un fantasma del teatro totale, la volontà di abbracciare tutto con la propria
arte, dove l’unione in perfetta corrispondenza di musica e danza crea un crescendo di sensualità ed
eccitazione. Andato in scena per la prima volta all’Opéra di Parigi nel 1928 con la coreografia di Bronislava
Nijinska, nel corso del tempo l’argomento del balletto si è sempre basato sulla falsariga di questa prima
interpretazione, mantenendone le caratteristiche: in una taverna dell’Andalusia una giovane gitana inizia a
danzare sopra un tavolo in modo via via sempre più seducente, ed un gruppo di uomini, attratti dalla sua
bellezza e dalle sue movenze, si avvicina pian piano, poco alla volta, affollando il luogo dove lei balla. I
ballerini iniziano a danzare intorno alla ragazza, in un crescendo intenso e violento che segue quello della
musica. Nella versione di Béjart invece il ruolo centrale, che rappresenta per lui la Melodia, è assegnato
indifferentemente ad un danzatore o ad una danzatrice, mentre il Ritmo viene sì interpretato da un gruppo di
danzatori uomini giù ed intorno al tavolo. Lo stile minimal fa sì che i ragazzi indossino solo un paio di semplici
pantaloni neri, così come la solista sul tavolo, accompagnata da un body color carne.
Boléro
è su tutti Jorge
Donne, geniale e sfortunato (morì a soli 45 anni) interprete, il danzatore favorito del coreografo, e Luciana
Savignano invece ne è stata la protagonista femminile più acclamata. Béjart era solito scegliere
personalmente i suoi solisti: non affidò mai, finché in vita, né
Boléro
né altri suoi lavori a Roberto Bolle.
Chiediamoci perché; ma qui in Scala c’è lui. Con la sua precisione tecnica impeccabile, come sempre non
sbaglia un passo, ma lo stile non è il suo: è un classico puro e, per quanto con l’età è più difficile mantenere a
livello fisico lo stile del repertorio classico, il contemporaneo decisamente non è per tutti. Luciana Savignano è
stata una splendida danzatrice classica ma si è rivelata un talento anche nel contemporaneo, tant’è che danza
ancora oggi; stessa sorte per Sylvie Guillem, ad esempio. Ma il Roberto nazionale proprio no. Certo, ormai è
talmente un nome che la gente va a vederlo non per quello che fa ma a prescindere per vedere lui.
L’interpretazione non è mai stata la sua miglior qualità, e anche qui esegue i movimenti in modo meccanico e
freddo. Non c’è passione, non c’è coinvolgimento, non c’è anima, la qualità che Béjart ha sempre cercato nei
suoi danzatori: ormai, purtroppo, non può più dire la sua. Si fa quindi più caso al Corpo di Ballo intorno a lui
giù dal tavolo, cosa che di solito riesce difficile perché ipnotizzati dal/dalla solista sul tavolo: i ragazzi scaligeri
danno vita a movimenti di grande energia e carica, perfettamente in stile Béjart. Nelle altre repliche,
Gioacchino Starace, Martina Arduino e Virna Toppi si alternano con Roberto Bolle sul tavolo rosso.
Teatro Alla Scala
Piazza della Scala, Milano
Fino al 3 Ottobre 2025
Biglietti da EUR 10,00 a EUR 180,00
www.teatroallascala.org