Verso un nuovo maschile e un nuovo femminile
Vogue Italia e la rivoluzione dello sguardo
Una chiacchierata con Alessia Glaviano, Brand Visual Director di Vogue Italia, sulla rappresentazione della diversità oggi, e sui nuovi orizzonti della mascolinità e della femminilità visti attraverso il linguaggio della fotografia di moda.
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Quando sono entrata nella redazione di Vogue Italia a Milano per incontrare Alessia Glaviano, Senior Photo Editor di Vogue, nota fuori e dentro il mondo della moda come colei che sta rivoluzionando il modo di vedere la fashion photography, e con essa, il concetto stesso di estetica femminile e maschile; non sapevo esattamente cosa aspettarmi. Ho percorso un lungo corridoio tappezzato di immagini della moda degli ultimi cinquant’anni, e attraversato diverse stanze dove giovani donne picchiavano velocemente sui tasti dei pc; ma di assistenti anoressiche in minigonna e tacchi chilometrici neppure l’ombra. Giunta a destinazione, la Glaviano mi accoglie con un paio di jeans ed un maglione, struccata e sorridente; e mi fa segno di sedermi. Me lo dice quasi subito, che la moda per lei non è una manifestazione effimera e superficiale, ma l’espressione dell’identità profonda di ciascuno di noi e, su larga scala, della società tutta. In quest’ottica, la fotografia di moda è un linguaggio potentissimo, in grado di modellare la percezione di chi siamo e, ancor di più, di chi vorremmo essere. L’avvento dei social media poi, non ha fatto che amplificarne la pervasività, trasformandolo in una lente fondamentale per comprendere il nostro tempo.
Per questo, da diversi anni Alessia Glaviano ha iniziato un percorso di riflessione sul ruolo che la fotografia di moda esercita oggi, e sul processo di costruzione e decostruzione dei modelli, maschili e femminili, che la moda contribuisce allo stesso tempo a creare e diffondere. Questo percorso trova uno dei suoi pilastri nel “Photo Vogue Festival”, quest’anno alla sua terza edizione. All’interno del festival due mostre collettive si concentrano, in maniera quasi speculare, sulla valorizzazione della diversità in ogni sua espressione. La prima, “All That Man Is – Fashion and Masculinity Now”, esplora l’evoluzione del concetto di mascolinità attraverso lo sguardo dei fotografi di moda contemporanei. “Embracing Diversity”, invece, è una potente celebrazione della diversità dove, tra le altre, l’immagine canonica del corpo della donna cui una certa fotografia di moda ci ha abituato ne esce profondamente rivoluzionata.
Nel costruire questo numero tematico sul corpo della donna, abbiamo pensato immediatamente a te e al lavoro che stai facendo. Chi è Alessia Glaviano?
Sono cresciuta in una famiglia di artisti, l’arte era ovunque attorno me, da quando sono nata. Sono passata dal teatro ad un master in Economia Politica in Bocconi, con l’idea di lavorare nella cooperazione internazionale. Dopo la laurea ho raggiunto mio padre a New York, e lì ho iniziato a lavorare per Pier 59 Studios, partendo dalla gavetta, lavorando di notte, lì ho lavorato come assistente per alcuni tra i più importanti fotografi di moda, e poi iniziato una collaborazione con Art + Commerce, un’agenzia di fotografi. Nel 2001, appena compiuti trent’anni, ho deciso di tornare, tramite Art + Commerce ho avuto un colloquio con Franca Sozzani, che all’epoca dirigeva Vogue Italia. E’ stato amore a prima vista. Ho iniziato con una sostituzione maternità, poi ho avuto un contratto da giornalista, ma sin dal principio ho lavorato con lei su tutto. Non ho mai creduto nella rigida divisione di ruoli, e neppure lei. Abbiamo condiviso da subito una visione, lei mi ha dato grande fiducia e mi ha lasciata molto libera. Oggi sono qui da vent’anni, e non c’è stato un giorno uguale all’altro, è un settore che si modifica costantemente ed offre tante occasioni per innovare, se si è pronti di coglierle.
Da diverso tempo, il tuo focus è sull’offrire una diversa prospettiva rispetto alla percezione della bellezza, utilizzando la fotografia di moda. Per alcuni può sembrare un paradosso. Spiegaci perché non è così.
Ho sempre creduto che la moda sia un linguaggio e non qualcosa di superficiale ed effimero che varia di semestre in semestre. Un interfaccia con la società. Mi interessava portare il discorso sulla moda ad un livello più profondo, per questo per il primo anno del Photo Vogue Festival ho scelto il tema del “Female Gaze”, e da quel momento in poi se ne è iniziato a parlare moltissimo. Il tema del corpo della donna e della sua rappresentazione negli ultimi anni, con i social media, si è estremamente ampliato. I media tradizionali hanno sempre solo offerto un modello di rappresentazione univoco, ed anche le donne fotografe cadevano in quel cliché dell’oggettivizzazione della donna, perché non c’erano altri modelli cui riferirsi. Oggi, con i social, attraverso figure come Petra Collins e Juno Calypso, assistiamo ad una riappropriazione dello sguardo della donna sulla donna. Questo ha dato inizio ad una rivoluzione dello sguardo, una rappresentazione più inclusiva e realistica della forma del corpo, delle diverse etnie e dei colori.
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In quest’ottica i social hanno un ruolo fondamentale nel mostrare la diversità, è vero. Ma è anche vero che se poi si va a guardare quali sono i modelli che le ragazzine e i ragazzini seguono e tendono ad emulare, il rischio non è quello opposto, ossia di un’esasperazione del conformismo?
Questo è in parte vero, ma se devo fare un bilancio credo che i social media abbiano più aspetti positivi che negativi. Il tema delle ragazzine che si sovraespongono si lega più al tema di una società che si fa sempre più narcisistica, e che i social in qualche maniera enfatizzano. Ma se pensiamo all’immagine della donna offerta dalla televisione berlusconiana, sono stati fatti grossi passi avanti. Il rischio di cui parli tu c’è, e pone un problema di educazione all’immagine e all’uso dei social media che oggi non c’è e va pensato. Siamo all’inizio, le scuole si stanno già attivando per fare più educazione in questo senso. Dall’altro lato però, bisogna dire che i social hanno aperto il campo, fra le altre cose, a giovani donne che stanno combattendo contro lo stereotipo della vergogna attorno alle mestruazioni, le cicatrici, le smagliature, la cellulite o ai peli. Senza i social media questi temi non sarebbero mai emersi con così tanta forza.
La mostra “All that Main is” è un’indagine visiva, a mio avviso necessaria, su cosa sia la mascolinità oggi. Cos’è per te? E a che punto siamo nel processo di liberazione, non soltanto della donna, ma anche dell’uomo, dai modelli di riferimento imposti dalla società?
E’ una tematica estremamente complessa. Noi donne, di fatto, ce lo chiediamo da così tanto tempo, anche a causa delle diverse forme di oppressione cui da secoli siamo soggette, che abbiamo fatto passi da gigante nella consapevolezza di noi stesse, nella rappresentazione e autorappresentazione di ciò che siamo. Gli uomini oggi sempre di più soffrono la gamma così ridotta di modelli di riferimento a loro disposizione, ridotti troppo spesso a macchiette tra macho e gay. L’elemento che emerge più di altri, è il bisogno e la voglia di riappropriarsi della sfera emotiva e della sua espressione; il poter piangere liberamente, per esempio, che eterosessualità non significa soltanto durezza e impossibilità di mostrarsi fragili. Oggi l’uomo ha ampliato le proprie possibilità si sta costruendo ha una gamma molto più ampia di modelli.
Tutto il tuo lavoro va nella direzione della costruzione di un concetto più inclusivo di bellezza. Tu credi che questo sia reale, e non soltanto un palliativo? Ossia che iniziative come “Embracing Diversity” possano davvero allargare il concetto di bellezza e avere un impatto, senza rischiare di restare esercizi virtuosi destinati ad avere un impatto estemporaneo su pochi. Delle belle foto di soggetti considerati brutti o strani, insomma, ma che non contribuiscono ad alterare la percezione comune della bellezza?
Io credo che se non si fa niente, niente cambia. Magari non oggi, non domani. Ma giorno dopo giorno, venendo esposti ad un certo tipo di immagini, piano piano ci si abitua e l’immaginario finisce per ampliarsi. E’ l’inizio di un processo, di un dialogo, di una rivoluzione visiva e di contenuto. Io faccio questo percorso da anni e ne vedo già i frutti. Era impensabile fino a pochi anni fa che un agenzia di modelle decidesse di rappresentare una ragazza con disabilità, oggi è successo, e assistiamo sempre di più a campagne pubblicitarie realizzate con tipologie di donne diverse. Le ultime sfilate sono state quelle con una presenza maggiore di modelle di colore nella storia. Lo spettro di categorie rappresentate si è ampliato notevolmente, e questo è un dato di fatto.
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Eppure il discorso politico sembra andare in tutt’altra direzione. Che ne dici?
Dico che stiamo vivendo una dicotomia profonda. Da un lato la rappresentazione artistica che cambia, che apre. Dall’altro lato la retorica politica razzista e populista, che va a chiudere. Ci troviamo in una congiuntura storica in cui il capitalismo così come lo conosciamo ha fallito, e non si è trovato ancora un altro modello. Per questo ogni azione oggi deve andare nella direzione della costruzione di consapevolezza, dei contenuti pensati; per non essere complice di questa gente, di questi messaggi. Io lo faccio come posso, attraverso le immagini.
Le prime immagini che ti vengono in mense, se pensi al corpo della donna?
Mi viene in mente Richard Learoyd. Mi viene in mente un nudo. Un corpo morbido, vero, sensuale, generoso ed inclusivo.
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