Uno studio SDA Bocconi sul settore lattiero-caseario evidenzia il fattore cruciale della “dimensione”
Settore lattiero-caseario: perché bisogna crescere secondo la SDA Bocconi. Lo studio è stato condotto insieme a Parmalat: la crescita dimensionale delle imprese è cruciale per lo sviluppo del sistema Paese. La filiera lattiero-casearia italiana soffre la carenza di operatori di grandi dimensioni, soprattutto a monte, nella produzione, secondo questa ricerca.
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Le ragioni addotte dalla ricerca sono principalmente quattro. Minore dimensione implica minore produttività, minore capacità di export, minore capacità di innovare data da minori risorse investibili in ricerca e sviluppo o in progetti di crescita organica o M&A. Minore dimensione implica infine maggiore rigidità finanziaria. Il tema è trasversale a più settori e caratterizza anche il settore lattiero-caseario, composto in misura prevalente da operatori conferenti latte di piccola dimensione.
NON TUTTI SONO D’ACCORDO
Non tutti però sono d’accordo. L’imprenditore Marco Colombo, presidente di AIME Agroalimentare, un’importante associazione di imprenditori con sede a Varese e rappresentanze nelle principali province italiane, commenta così la notizia: “Un comunicato stampa che in un nanosecondo affonda tutto il settore lattiero-caseario, già messo in difficoltà da regole europee liberticide, che non tengono conto dell’importanza della filiera e della supply chain collegata” e ribadisce “una realtà che ha avuto il merito di generare il prodotto più riconosciuto al mondo: il PARMIGIANO REGGIANO”.
LA DIMENSIONE: FATTORE CRUCIALE
Ma implacabilmente la ricerca della Bocconi sostiene che la dimensione è un fattore cruciale nel settore lattiero-caseario, dove i 2/3 delle imprese è collocato nelle due classi dimensionali più piccole e dove esiste una forte discrepanza dimensionale fra parte alta (produttori) e parte bassa (trasformatori) della filiera.
Nell’ambito dell’Unione Europea, principale area mondiale di produzione di latte con un tasso di autoapprovvigionamento pari al 113%, il settore italiano del latte è quello che sta attraversando la fase più critica, principalmente a causa di costi di produzione nazionali mediamente più elevati (più alti di circa 3,3 euro/100 kg rispetto alla media europea nell’ultimo triennio) rispetto a quelli degli altri principali produttori dell’Unione Europea, tra cui, in particolare, Francia e Germania (con differenziali di prezzo rispetto all’Italia di – 2,73 e – 3,58 euro ogni 100 kg, in media, nel periodo 2015-2017).
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I costi di produzione aziendali, estremamente diversificati da un’azienda all’altra in funzione di numerosi parametri strutturali e gestionali, variano prevalentemente in funzione della dimensione aziendale, diminuendo all’aumentare della produzione annua e del numero dei capi. Nel settore il rapporto domanda-offerta è di 1:20 in termini di numerosità di operatori: i soggetti che operano a livello industriale nella trasformazione del latte si interfacciano con molti operatori di ridotta dimensione contraddistinti, in media, da bassi livelli di produttività. L’effetto è un costo netto di produzione del latte pari mediamente a circa 43 euro/100kg, ma con valori oscillanti tra i 30 e i 60 euro/100kg a seconda della dimensione degli operatori.
LE MULTINAZIONALI
“Capisco l’interesse delle multinazionali come Parmalat nel concentrare il potere in pochi grandi produttori” prosegue Marco Colombo “ma trovo strano che una nostra università avalli questa tesi a discapito del valore di migliaia di micro imprese che formano il tessuto economico produttivo di una nazione che vanta una produzione d’eccellenza, unica per qualità anche dal punto chimico batteriologico, caratterizzata anche alle diverse condizioni micro climatiche”.
La crescita delle imprese appare dunque un imperativo per aumentare la competitività, favorita dai grandi operatori del settore, che stimolano un effetto “traino”.
Per la SDA Bocconi gli attuali squilibri possono essere colmati grazie all’attività degli operatori di maggiore dimensione. “La presenza di operatori con massa critica rilevante e maggiore produttività, è fondamentale per creare valore «indotto» nel resto della filiera, come dimostra la Ricerca: la crescita di questi operatori comporta la crescita delle imprese ad essi «collegate», con un effetto traino fondamentale per la creazione di valore per il Sistema Italia” commenta Matteo Vizzaccaro, coordinatore del Team di ricerca composto da Giulia Negri, Chiara Pirrone, Ilaria Cavalleri e Arianna Pisciella.
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IPOTESI ALTERNATIVE
Nessuno però fra i ricercatori che hanno diffuso i risultati dell’indagine ha sentito il bisogno di trovare spiegazioni alternative. Né si è peritato di valutare l’impatto di norme europee più consone alla realtà italiana che, notoriamente, nel comparto lattiero-caseario soffre da anni di una visione miope e disincentivante.
La stima dell’impatto economico e sociale di Parmalat è stata svolta invece solo in tale prospettiva dimensionale, nell’intento di sostenere che lo sviluppo del settore risiede nella complementarietà delle parti che lo compongono, ovvero investimenti organici, M&A, internazionalizzazione e ottimizzazione del rapporto con il mercato dei capitali. Sono queste le leve indicate per guidare la crescita, con una costante attenzione alle performance in ambito ambientale, sociale e di governance, certamente condivisibile, ma non sufficiente senza una riforma di ampio respiro che permetta alle aziende minori di svolgere il proprio compito efficacemente.
Nessuno nega che uno dei pochi grandi operatori del settore sia Parmalat. Cassa operativa in crescita in media del 5% su base annua, 1,5 miliardi di euro investiti in 10 anni (dati al 2016), 141 milioni di euro d’investimento medi annui ad un tasso di crescita vicino all’8%, basso indebitamento, alta capitalizzazione e conseguente basso profilo di rischio sono gli ingredienti per un’incidenza sul PIL nazionale nell’ordine del 1,638 miliardi di euro. 134 mila persone coinvolte dal punto di vista lavorativo dalla presenza sul territorio dell’azienda, che produce il 21% dell’IRES e il 17% dell’Irpef generate dal settore.
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Il Gruppo rappresenta il più importante operatore del settore in Italia (quarto in Europa) a presidiare attivamente le tematiche ESG (Environmental, Social & Governance), con specifiche policy attive per quanto riguarda la riduzione delle emissioni, la tutela della forza lavoro, la responsabilità di prodotto, l’innovazione e il funzionamento dei meccanismi di governance. Ma non è l’unico. Anche aziende di dimensioni minori mettono tutto il loro impegno nello sviluppo di un’economia sostenibile.
Va riconsiderato tutto l’insieme: l’approccio normativo europeo deve tenere conto della realtà italiana più meritevole.
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