Protagonisti delle sfide che ci attendono. La nuova edizione del libro di Alessia Potecchi
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Nell’era dell’Intelligenza Artificiale
Seconda Edizione
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PREFAZIONE
— Paolo Brambilla —
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Nei prossimi anni, l’Italia dovrà affrontare diverse sfide in campo
economico e finanziario. Il nostro Paese ha sofferto di una crescita
economica lenta rispetto alla media dell’UE negli ultimi decenni.
Promuovere investimenti, innovazione e produttività sarà cruciale per
accelerare la crescita. Nonostante un leggero miglioramento, rimane
elevata la disoccupazione, soprattutto giovanile. Creare opportunità di lavoro di qualità è
essenziale per stimolare l’economia e ridurre la fuga di giovani talenti.
Con un rapporto debito/PIL tra i più alti del mondo, l’Italia deve trovare un equilibrio
tra la necessità di sostenere la crescita e la riduzione del debito pubblico, rafforzando la
solidità del sistema bancario e riformando il mercato del lavoro, il sistema pensionistico e
la burocrazia. Occorre massimizzare l’utilizzo efficace dei fondi europei, in particolare
del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), per sostenere la ripresa economica
e le riforme strutturali.
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Come tutti gli altri Paesi, anche l’Italia deve affrontare la sfida della transizione verso
un’economia più sostenibile, riducendo le emissioni di carbonio e investendo in energie
rinnovabili, pur garantendo la competitività delle imprese.
Tutti questi punti, e molti altri, sono affrontati con competenza da Alessia Potecchi in
questo breve saggio. Affrontare queste sfide richiederà una combinazione di politiche
economiche mirate, riforme strutturali e una visione strategica a lungo termine. Solo
attraverso un approccio coordinato e concertato l’Italia potrà assicurare una crescita
economica sostenibile e inclusiva.
Non tutti i partiti politici in Italia oggi stanno remando nella stessa direzione. Le loro
posizioni sulle sfide economiche e finanziarie variano significativamente, riflettendo
logicamente le loro diverse ideologie e priorità: ma occorre trovare un’intesa per il bene
del nostro Paese.
Fratelli d’Italia promuove politiche economiche più nazionaliste, con incentivi alla
produzione interna e al sostegno delle imprese italiane. Favorisce un approccio critico
verso le politiche economiche dell’UE, promuovendo una maggiore sovranità economica
con maggiore enfasi su sicurezza, famiglia, identità nazionale, welfare e natalità.
Il Partito Democratico sostiene politiche di stimolo economico, investimenti pubblici
in infrastrutture e tecnologie verdi, e incentivi per l’innovazione e la ricerca. Pur
riconoscendo la necessità di ridurre il debito pubblico, il PD è favorevole a una gestione
graduale che non penalizzi la crescita economica. Promuove infine riforme per
migliorare la competitività, tra cui semplificazioni burocratiche e riforme del mercato del
lavoro volte a migliorare la sicurezza e la flessibilità.
Forza Italia favorisce la liberalizzazione del mercato, la riduzione delle imposte e il
sostegno alle imprese. Quanto alla riduzione del debito preferisce agire attraverso una
crescita economica sostenuta da politiche di incentivo fiscale. Promuove riforme probusiness, come la riduzione della burocrazia e la semplificazione del sistema fiscale.
Il Movimento 5 Stelle ha spinto per politiche di reddito di cittadinanza e sostegno alle
famiglie. Promuove la digitalizzazione e l’innovazione e ha una posizione più flessibile
sul debito, spesso criticando l’austerità e promuovendo politiche espansive per stimolare
la domanda interna con una forte enfasi sulla sostenibilità ambientale, sulle energie
rinnovabili e sulla mobilità sostenibile.
Italia Viva sostiene politiche di modernizzazione, con enfasi su innovazione,
digitalizzazione e infrastrutture. Propone un approccio equilibrato, combinando riforme
strutturali con politiche di crescita economica. Spinge per una maggiore efficienza della
pubblica amministrazione e del sistema giudiziario.
Azione pone l’enfasi su investimenti in educazione, ricerca e sviluppo tecnologico.
Promuove una politica economica basata su competenze e merito. Sostiene la necessità
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di ridurre il debito pubblico attraverso una crescita economica sostenibile. Propone
riforme del mercato del lavoro e del sistema fiscale per aumentare la competitività del
Paese.
Sinistra Italiana e Altri Partiti di Sinistra favoriscono politiche redistributive, con un
forte focus sul welfare e sulla riduzione delle disuguaglianze tramite una maggiore spesa
pubblica per stimolare la domanda e il benessere sociale. Fortemente orientati verso
politiche di sostenibilità ambientale, promuovono investimenti in energie rinnovabili e
progetti ecologici.
Il futuro dell’Italia?
Nonostante le differenze ideologiche e le specifiche proposte politiche, ci sono alcuni
punti di contatto nelle politiche economiche. Tutti concordano sulla necessità di investire
in infrastrutture per stimolare la crescita economica e migliorare la competitività del
Paese. Questi investimenti includono sia le infrastrutture tradizionali (strade, ferrovie,
ponti) sia le infrastrutture digitali. Tutti riconoscono l’importanza di sostenere le imprese
italiane. Le misure proposte includono incentivi fiscali, riduzione della burocrazia, e
sostegno all’innovazione con un forte accento sulla digitalizzazione e l’innovazione
tecnologica come leve per la crescita economica futura.
Tutti esprimono supporto per una transizione ecologica che sia compatibile con la
crescita economica e condividono l’idea che sia necessario rendere la pubblica
amministrazione più efficiente e meno burocratica. Tutti concordano sull’importanza di
utilizzare in modo efficace i fondi europei, in particolare quelli del Piano Nazionale di
Ripresa e Resilienza (PNRR), per promuovere la crescita economica, le riforme
strutturali e la transizione ecologica.
Questi punti di contatto indicano che, nonostante le divergenze su molte questioni,
esistono aree comuni in cui è possibile trovare un consenso trasversale per affrontare le
principali sfide economiche del Paese. Leggete con attenzione le considerazioni esposte
da Alessia Potecchi in questo saggio: è facile trovare molti argomenti costruttivi al di là
delle semplici critiche ai punti dolenti del sistema.
Paolo Brambilla
Consigliere dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
Direttore responsabile di Trendiest Media Agenzia di stampa
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PREMESSA
La grande crisi della economia che ha caratterizzato questi ultimi anni si è arrestata e si
vedono finalmente dei segnali di ripresa seppur timidi. Vanno colti, sostenuti,
incrementati. L’Europa e l’Italia devono scegliere con decisione e coerenza la strada dello
sviluppo e devono andare incontro alle nuove sfide cogliendone le opportunità e
giocando un ruolo da protagonisti perché i cambiamenti che ci attendono non sono più
rinviabili. Oggi è il tempo in cui non dobbiamo arrenderci, dobbiamo rimboccarci le
maniche, dobbiamo avere passione, determinazione, conoscenza e l’ambizione di essere
noi oggi protagonisti. Non possiamo tirarci indietro perché dobbiamo essere all’altezza,
dobbiamo saper rispondere alle domande e alle inquietudini delle donne e degli uomini
di oggi, che sono donne e uomini complessi che vivono una realtà sempre più complessa
e in cambiamento. Non tiriamoci indietro perché il futuro che ci attende è lo sfondo su
cui noi saremo impegnati con gli strumenti e le conoscenze che oggi abbiamo per poter
operare e mettere al centro l’individuo come persona unica, tornare ad un’economia e a
una finanza delle persone. Quando pensiamo al risparmio, al fisco, alla previdenza, alla
transizione ecologica e digitale dobbiamo farlo pensando realisticamente alle persone
perché questi cambiamenti hanno in primis una forte valenza sociale di cui ci dobbiamo
occupare.
E’ necessario realizzare un profondo cambiamento che consenta di rendere più coesa
l’Europa e consenta anche di fare in modo che la ripresa sia sostenibile sul terreno
ambientale, sul terreno occupazionale, sul terreno dei diritti riportando al centro
dell’attenzione i bisogni delle persone. La digitalizzazione, l’innovazione tecnologica, la
diffusione dell’intelligenza artificiale devono assolutamente essere indirizzate alla
riduzione delle diseguaglianze, alla valorizzazione della solidarietà e alla sostenibilità dello
sviluppo economico e sociale. Non dimentichiamo che la crisi dovuta alla pandemia che
abbiamo vissuto non è stata soltanto una crisi economica e sanitaria ma anche e
soprattutto una crisi di carattere sociale che ha aumentato la povertà.
Dopo la caduta del Muro di Berlino l’Europa ha abbandonato la linea sociale di Jacque
Delors ed è via via scivolata in una situazione nella quale ha finito per dominare la
finanziarizzazione, la globalizzazione, il mercato senza regole. I risultati sono dinnanzi
agli occhi di tutti, il sistema di welfare che era stato conquistato e che aveva
caratterizzato la seconda metà del secolo passato è stato messo in crisi, in molti paesi
europei è stato praticato il Dumping Sociale che ha pesantemente rimesso in discussione
le conquiste ottenute dai sindacati per valorizzare il mondo del lavoro, l’Europa si è
divisa non solo su un utilizzo spregiudicato del Dumping Sociale per vincere la
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concorrenza sulla pelle dei lavoratori, ma si è praticata una politica fiscale che ha diviso
l’Europa in paradisi fiscali come ad Es. l’Olanda, il Lussemburgo, l’Austria, l’Irlanda ecc
e inferni fiscali tra i quali è precipitato il nostro paese.
Stiamo vivendo una fase di importanti trasformazioni: la crisi climatica, le guerre alle
porte dell’Europa, la frammentazione geopolitica e geoeconomica, la rivoluzione
tecnologica e l’Intelligenza Artificiale stanno cambiando l’economia mondiale, le catene
globali del valore, i flussi commerciali e di investimento. Dobbiamo decidere quale
Europa vogliamo e su quali valori vogliamo investire, la partita si giocherà soprattutto sui
temi economici, il fisco, i programmi finanziari, il completamento del Mercato Unico
Bancario il tema della pace. L’Unione Europea è il luogo dove esprimere e realizzare
l’interesse nazionale, dove l’Italia deve dialogare con gli altri grandi paesi che si pongono
sulla frontiera più avanzata dell’integrazione. Dobbiamo chiederci se desideriamo
costruire davvero una Europa Sociale e della solidarietà che non arretri rispetto a quegli
strumenti di solidarietà economica che sono stati messi in campo in questi anni con delle
decisioni di carattere storico per fare fronte alla tragedia del Covid che ha colpito in
maniera simmetrica tutti gli stati, se vogliamo un’Europa che attui in maniera
permanente investimenti comuni, che replichi i programmi che sono stati realizzati in
questi anni e ragioni come una famiglia unica, cambiando davvero visione e mentalità.
Rinvigorire il modello sociale europeo per costruire un’Europa che abbandoni
definitivamente l’austerità e gli egoismi nazionali per riconoscersi in una comunità di
destino con la costruzione del cosiddetto pilastro sociale dell’Unione che garantirà passi
in avanti per rimettere al centro la persona, il lavoro, e cogliere le migliori opportunità
della transizione verde e digitale, che ponga attenzione alle donne grazie al
rafforzamento del dialogo sociale e della contrattazione collettiva. Una Europa sempre
più sinergica sui tanti punti che ancora mancano e che voglia rispondere e impegnarsi
con una sola voce sulle grandi questioni di oggi a cominciare dai processi di pace
dinnanzi ai quali occorre spingere e marciare con forza tutti nella stessa direzione. Serve
molto più coraggio, ritrovare la strada che ha dato vita al Next Generation EU. Non
possiamo permettere che questa esperienza termini, una decisione storica lanciata dal più
importante piano di investimenti comuni della storia europea. Le destre nazionaliste si
oppongono con forza a questi programmi di solidarietà, è nella loro storia e nel loro
DNA, vorrebbero tornare indietro, vorrebbero arretrare e sono in forte imbarazzo
dinnanzi a queste decisioni.
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È necessario rendere strutturali i programmi di investimento comuni introdotti come
risposta alla pandemia, tali programmi non devono essere considerati solo un fattore
emergenziale ma devono costituire la spinta per mettere in campo nuove risorse per
favorire investimenti comuni sulla transizione ecologica e digitale e sui beni pubblici
europei. La governance economica deve contribuire fattivamente a costruire un’Europa
sociale, democratica e sostenibile, che sostenga decisamente le persone e le realtà
interessate alle grandi trasformazioni della conversione ecologica e digitale. È urgente
puntare alla creazione di un fisco comune e questo è necessario per costruire le basi
sociali dell’Unione e superare un’impostazione che dà ancora prevalenza in particolare ai
contributi nazionali. Non è facile, è un percorso complesso e delicato l’armonizzazione
di 27 sistemi tributari diversi ma è un cammino che è necessario percorrere con
competenza, serietà e lungimiranza. Un bilancio che corrisponde all’1% del PIL europeo
è del tutto insufficiente alle sfide cui l’Unione è chiamata. Non è più pensabile che
esistano paradisi fiscali all’interno dell’UE o Stati che applicano tranquillamente il
Dumping Sociale facendosi concorrenza, le tasse vanno pagate lì dove si realizzano i
profitti.
Vanno eliminate con programmi seri le disuguaglianze territoriali, geografiche e
generazionali. Uno degli obiettivi della prossima legislatura deve essere il completamento
e la modernizzazione del mercato interno, è una priorità fondamentale per rafforzare il
modello sociale e produttivo europeo. In questo contesto occorre introdurre un
meccanismo comune di contributi provenienti dagli aiuti di stato, da indirizzare a
investimenti per progetti pan-europei e favorire parità di condizioni tra le imprese.
Bisogna costruire un mercato interno che sia efficace, costruttivo e che sappia competere
in maniera fattiva con i soggetti economici internazionali. Va rafforzato il
completamento dell’Unione di capitali, per consentire alle imprese di avere finanziamenti
privati alle stesse condizioni e dell’Unione Bancaria con un meccanismo di protezione
dei depositi a livello europeo e un fondo di liquidità per garantire la stabilità finanziaria.
Abbiamo esigenze di iniziative di cambiamento, ci muoviamo a passo molto lento, il
fattore tempo è importante dobbiamo stabilire delle priorità, la Governance per esempio,
bisogna trovare delle soluzioni per modificare gradualmente un sistema in cui il
Parlamento conta poco e l’unanimità blocca le decisioni e bisogna fare dei passi in avanti
per evitare i nazionalismi dei singoli paesi, gli egoismi di parte, le chiusure che sono
ancora molto forti. Bisogna recuperare la solidarietà, la coesione, lo spirito di iniziativa
comune, gli aspetti di carattere sociale, l’indebolimento del welfare può creare delle
debolezze pericolose, dei fattori negativi, dobbiamo con maggiore forza testimoniare e
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realizzare una nostra identità e riuscire a essere competitivi per non soccombere con le
altre potenze che preponderanti si affacciano sulla scena.
Se è vero, infatti, che l’Europa in questi anni è stata in grado di dare risposte positive su
diversi temi, è altrettanto vero che è fondamentale fare un passo avanti per
permettere all’Unione di agire con più forza senza essere costretta in trattative infinite
che proprio nel diritto di veto degli stati trovano il loro naturale sbocco. Il superamento
dell’unanimità permetterebbe anche l’allargamento e il rafforzamento dell’Unione
Europea, con l’ingresso di altri Paesi, che da tempo lo chiedono, ma che
comprensibilmente attendono anche per il timore che uno solo di questi possa bloccare
decisioni già avviate e su cui si è già giunti ad un accordo. Occorre riscoprire quello
slancio dei padri fondatori per giungere ad un’autentica unità politica e non solo
economica dell’Ue. Solo così sarà possibile lavorare e costruire un’Europa più unita e più
forte e solo questo può e deve essere l’obiettivo futuro.
L’Italia in tutto questo deve giocare una parte importante, da protagonista ed essere
all’altezza delle sfide che ci attendono. A tutto questo dobbiamo rispondere
introducendo un programma serio di Riforme, ce lo chiede l’Europa ma il nostro paese
ne ha bisogno perché le Riforme sono necessarie per continuare a operare in prima fila e
a svolgere un ruolo fondamentale nel contesto europeo e globale, non è più tempo di
attendere se vogliamo guardare avanti e affrontare il futuro con consapevolezza e
responsabilità.
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LAVORO
Occorre una Riforma del Lavoro, il mondo è cambiato i soggetti sono diversi, non si
può pensare di proseguire la politica del lavoro secondo le abitudini, le regole, le
politiche del passato. Prima l’azione prevalente del sindacato era di fare in modo che
una parte crescente dei profitti delle imprese andasse a beneficio dei lavoratori e oggi
bisogna porsi il problema della innovazione tecnologica, dell’intelligenza artificiale, degli
algoritmi, questi strumenti devono permettere di valorizzare il lavoro, di dare la
possibilità ai lavoratori di crescere in conoscenza e professionalità, non si può accettare
che si rafforzi una diseguaglianza tra chi ha la conoscenza delle innovazioni tecnologiche
e chi ne è escluso. Occorre immaginare un rapporto di lavoro nuovo dove accanto ad un
conflitto che sempre ci sarà tra lavoratore e imprenditore si allarghi uno spazio di
collaborazione, di valorizzazione dei lavoratori, bisogna investire sul sapere delle persone
e anche sulla loro formazione. È evidente che il mondo del lavoro è mutato, la Banca
D’Italia da anni denuncia che non solo sono andate all’estero molte aziende italiane ma
anche un numero sempre più crescente di giovani laureati che vanno a cercare lavoro
fuori dal nostro paese. Un tempo emigravano i braccianti, chi lavorava nelle miniere o
nelle acciaierie, oggi vanno invece via ragazze e ragazzi colti e preparati che vanno a fare
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ricerca nelle aziende all’estero perché qui da noi non hanno opportunità adeguate e
soddisfacenti.
La Banca d’Italia ci dice anche che il maggior numero di laureati in Italia sono donne, le
donne portano maggiormente a compimento il percorso di laurea rispetto agli uomini e
con votazioni molto maggiori. Questo per sottolineare come le donne siano una risorsa
che va impiegata e valorizzata perché è un valore aggiunto importante per la crescita
economica e sociale del paese. Tutto questo richiede collaborazione, partecipazione,
flessibilità, esclude un rapporto che si basi sulla precarietà e sul nomadismo dei
lavoratori. Occorre ripensare i rapporti tra impresa e sindacati, bisogna immaginare un
rapporto di lavoro che utilizzi la innovazione per favorire la competitività dell’azienda e
il ripristino dell’ascensore sociale. Bisogna immaginare nuove forme di rappresentanza
del sindacato e nuove modalità di contrattazione e una politica economica del governo
idonea a sostenere questo cambiamento.
Dobbiamo occuparci dei salari che sono i più bassi d’Europa, occorre spingere perché
tutti contratti siano rinnovati al fine di aumentare il valore reale dei salari. Gli stipendi dei
lavoratori italiani sono fermi. Negli ultimi 30 anni, sono cresciuti solo dell’1%, a fronte
del 32,5% in media nell’area Ocse. Dobbiamo contrastare senza sosta la precarietà che è
il motivo principale dei bassi salari.
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Gli incentivi alle imprese devono essere dati in maniera accurata e non a pioggia, vanno
dati a chi incentiva la produzione nel paese e a chi valorizza e tutela il lavoro e i lavoratori
e dobbiamo vigilare perché si intervenga maggiormente sugli extra profitti, i soldi vanno
presi lì dove sono. Il Governo in carica ha fatto un vero e proprio pasticcio con la tassa
sugli extra profitti delle banche che è questione assai delicata che non si può affrontare
con una boutade e improvvisazione dalla sera alla mattina, si è rischiato di avere delle
ripercussioni serie sui mercati e sulla fiducia degli investitori e si è dovuto fare in fretta
marcia indietro, ci vuole grande attenzione e competenza.
Bisogna insistere sul Salario Minimo che non ha alcun costo. Vengono stabiliti i requisiti
per un reddito dignitoso con un salario minimo legale o la contrattazione collettiva tra
lavoratori e datori di lavoro. È un passo importante perché la richiesta come in altre
occasioni viene dall’Europa e si pone sulla strada della sua unità e sinergia. L’Europa ci
esorta, nella piena libertà, all’introduzione di un salario minimo che è in vigore già in 21
paesi su 27 dell’Unione. In questo contesto va data massima importanza alla
contrattazione autonoma delle parti sociali tenendo come punto di riferimento
i trattamenti economici complessivi (Tec) dei contratti di lavoro maggiormente
rappresentativi. Sarebbe poi utile poter stabilire dei salari minimi per quei settori dove le
buste paga sono più basse e vi è anche poca contrattazione insieme al completamento e
alla velocizzazione dei rinnovi dei contratti scaduti perché ovviamente la contrattazione
va salvaguardata e incentivata per aumentare i salari: è lo strumento principale e deve
essere rafforzato. Tutto questo per ridurre anche la presenza di contratti pirata che
colpiscono soprattutto donne e giovani lavoratori. Ci sono 780 mila lavoratori senza
contratto nazionale o soggetti a contratti pirata. A questi vanno aggiunti quelli che non
rientrano sotto la tutela di Cgil Cisl e UIL e si arriva a ben 1,2 milioni di lavoratori. Ma va
sottolineato che anche in alcuni settori dove è presente la contrattazione nazionale
abbiamo dei contratti firmati al di sotto delle 9 euro all’ora e anche sotto le 8 e le 7 euro,
questo non è più lavoro ma pieno sfruttamento. Per esempio, gli operai agricoli, i
panificatori industriali che prendono 5,48 euro all’ora con contratto firmato dalle
confederazioni sindacali. A questi si aggiungono i contratti semi clandestini e altre forme
contrattuali con retribuzioni da fame perché di questo si tratta e quando un lavoratore e
una famiglia non arrivano alla fine del mese e rischiano una vita non dignitosa significa
che non sono più liberi, perdono la loro libertà.
Bisogna attuare in fretta dei provvedimenti concreti per contrastare senza sosta le morti
sul lavoro. I decessi sul lavoro sono un problema drammatico ed intollerabile, una piaga
del nostro paese che dobbiamo contrastare senza sosta. Va aperto un confronto
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continuativo con le parti sociali finalizzato a negoziare un accordo che metta al centro gli
investimenti sui temi della salute e della sicurezza sul lavoro. Bisogna rafforzare la
vigilanza e il controllo, assumere ispettori e medici del lavoro, si deve investire sulla
ricerca. È stato chiesto dai sindacati che nel PNRR venga affermato il principio che:
qualunque azienda pubblica o privata usufruisca di sostegni del fondo europeo deve
essere vincolata a incrementi netti di occupazione, giovanile e femminile, al rispetto dei
contratti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative e a investimenti sul
tema della salute e della sicurezza sul lavoro. Le continue innovazioni tecnologiche
richiederanno maggiori investimenti dal punto di vista della sicurezza e della formazione
permanente. Va modificato il modo di fare impresa, non si può accettare che al centro ci
sia sempre e a qualunque condizione il massimo profitto, vanno regolamentati i sistemi
degli appalti e dei subappalti perché non è accettabile che vengano applicati e poi
nessuno risponda in merito a quanto succede. E ‘una battaglia che va portata avanti
senza sosta e su cui occorre lavorare in sinergia con le altre realtà. Il lavoro sostiene il
futuro, la dignità e la libertà delle persone e deve essere la sfida principale del nostro
impegno in un continuo e costruttivo confronto con le parti sociali.
Senato della Repubblica Sala Capitolare Presentazione libro di Flo Carniti: “Pierre Carniti:
Tentare l’impossibile per fare il Possibile”.
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Lucca Inaugurazione Mostra Carlo Carli
FISCO
La partita su quale paese vogliamo si giocherà molto sulla Riforma Fiscale. La politica
fiscale deve essere intelligente. Deve rafforzare la capacità di spesa, deve incrementare i
consumi. L’economia torna a girare se si sostiene la domanda. Più consumi significa più
produzione. Più produzione vuol dire più lavoro, più occupazione. Le tasse in Italia sono
eccessive. Insopportabili. Incompatibili con la crescita. L’emergenza pandemica e le
conseguenze di carattere politico, economico e sociale portate dal conflitto in Ucraina e
da quello in Medio Oriente, in apparenza sembrano aver spostato temporaneamente
l’attenzione nel nostro Paese sul tema di interventi radicali in tema di fisco, ma le
quotidiane lamentele che vengono rivolte al sistema impongono delle riflessioni sulla
necessità di modernizzare un impianto tributario che è in piedi da più di cinquanta anni,
da quando cioè, nel 1972, veniva varata in Italia la riforma tributaria. Infatti, dopo anni di
studi e proposte per rinnovare il vecchio sistema tributario, il 9 ottobre 1971 fu emanata
la legge 825 che introduceva le norme necessarie per la partecipazione “di ognuno in
ragione della propria capacità contributiva e della progressività” al mantenimento dello
Stato. Nell’ottobre del 1972 furono pubblicati i primi diciannove decreti attuativi della
riforma, entrati in vigore il 1° gennaio successivo: nascevano l’imposta sul valore
aggiunto e l’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili, furono
modificate le imposte di registro, le successioni, ipotecarie e catastali, il bollo, il
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contenzioso tributario, l’imposta comunale sulla pubblicità e diritti sulle pubbliche
affissioni, l’imposta sugli spettacoli e le tasse sulle concessioni governative.
Le disposizioni sulle imposte dirette, invece, entrarono in vigore all’inizio del 1974 e le
vecchie imposte “reali” (ricchezza mobile, fabbricati, terreni, redditi agrari) e “personali”
(complementare sul reddito, imposta di famiglia), furono sostituite con le nuove sul
reddito delle persone fisiche, delle persone giuridiche e locale sui redditi: nascevano così
l’IRPEF, l’IRPEG e l’ILOR. L’organica raccolta di queste disposizioni fu fatta nel 1973
con appositi decreti del Presidente della Repubblica, raccogliendo le norme in materia di
accertamento e le norme sulle agevolazioni tributarie, e rivedendo le norme sulla
riscossione, sui servizi relativi e sugli estimi e classamento catastali e di terreni e
fabbricati.
Sono trascorsi più di cinquanta anni nel corso dei quali il nostro Paese è radicalmente
cambiato: siamo aumentati di dieci milioni di abitanti, si è trasformata la realtà
economica, è cambiata la composizione sociale ed economica, con più pensionati che
lavoratori attivi, e tra i lavoratori attivi sono più gli autonomi rispetto ai lavoratori
dipendenti, l’emigrazione italiana oggi è raccontata da giovani che vanno all’estero con il
computer, portandosi dietro saperi e conoscenze maturate in Italia, con la speranza che
vengano utilizzate e valorizzate altrove. Nel quadro sinteticamente rappresentato di
cambiamenti che hanno interessato la società italiana l’impianto fiscale è rimasto
sostanzialmente lo stesso dalla sua nascita, con alla base la distinzione tra redditi delle
persone fisiche e redditi delle persone giuridiche.
Anche se nel corso degli anni si sono succedute proposte di riforma, concretamente
sono stati fatti alcuni interventi di semplificazione: l’introduzione del modello 730 negli
anni Novanta ha rappresentato una novità importante, così come importanti sono state
la nascita dei CAF, gli interventi per la misurazione del reddito da lavoro autonomo,
come è stato nel caso della minimum tax, affinata progressivamente fino a costituire la
base degli studi di settore e l’approvazione in Parlamento dello Statuto del Contribuente.
Ma una vera e propria riforma fiscale non è stata più realizzata, nonostante le varie
“deleghe fiscali” di cui si parla in ogni legislatura, compresa l’ultima, che, al momento, ha
partorito soltanto una riduzione delle aliquote IRPEF da 5 a 4.
Un intervento riformatore è necessario per affrontare un problema che si è incancrenito
nella nostra società e nella nostra economia: l’evasione fiscale. Fanno impressione le cifre
che ogni anno vengono diffuse da istituzioni e istituti di ricerca specializzati ai quali
vanno aggiunti i circa 1.000 miliardi accertati dal 2000 a oggi, non ancora riscossi e
difficilmente riscuotibili in futuro, nonostante i vari provvedimenti di rottamazione e di
saldo e stralcio intervenuti nel corso degli ultimi anni, e che raccontano di un
“magazzino” di 130/140 milioni di cartelle da riscuotere.
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Abbiamo dunque bisogno di una Riforma Fiscale vera e complessiva e non stiamo per
nulla andando in questa direzione, un fisco intelligente che accentui la progressività, chi
ha di più deve dare di più, con la riduzione certa ed esigibile delle tasse sulle imprese,
sull’innovazione, sulla formazione, sul lavoro per i giovani, sulle famiglie. Un progetto
serio scaglionato nei tempi con una politica accorta di sviluppo, accompagnata da tagli
agli sprechi e da una mirata politica di contrasto alla elusione e alla evasione fiscale. Un
fisco che vada incontro ai redditi medio bassi che sono quelli che stanno soffrendo di
più la crisi energetica e l’inflazione. Bisogna che avvenga un vero processo di
semplificazione e razionalizzazione e che soprattutto le norme dello Statuto del
Contribuente vengano applicate rinunciando in termini definitivi a misure di retroattività
delle norme.
Ci dobbiamo rendere conto che dobbiamo superare definitivamente ogni
contrapposizione tra amministrazione finanziaria e contribuenti, è questo necessario per
svolgere un’azione concreta di contrasto all’evasione fiscale. Non si tratta di considerare
le tasse bellissime o bruttissime, le tasse sono l’importante e fondamentale leva
costituzionale e non per nulla in Costituzione si parla di tasse progressive, per garantire i
servizi pubblici primari ai cittadini, a partire da sanità e scuola pubblica adeguate e di
qualità e per permettere lo sviluppo economico e sociale del paese che accorci le
diseguaglianze e promuova la giustizia sociale. Bisogna evitare la frammentazione e la
disomogeneità del nostro sistema tributario che è iniqua, è vessatoria, a parità di reddito
le tasse devono essere le stesse. Do qualche dato.
L’IRPEF (l’imposta sui redditi delle persone fisiche da cui arriva un gettito di 175,17
miliardi considerando anche addizionali comunali e regionali) presenta profonde
anomalie e asimmetrie. Quasi la metà degli italiani, ben il 47% addirittura non dichiara
redditi, tra coloro che versano è l’esiguo 13,94% dei contribuenti con redditi dai 35.000
euro in su a corrispondere da solo ben il 62,52% dell’imposta sui redditi delle persone
fisiche. In sostanza poco meno dei due terzi dell’imposta a carico grava totalmente su chi
dichiara da 35.000 euro di redditi a salire. Non si può accettare che poco più del 13%
della popolazione si faccia carico della quasi metà degli italiani che non dichiarano redditi
e trova poi benefici in un groviglio di agevolazioni e sostegni e a cui bisognerebbe
mettere mano ma non lo si è fatto ancora in maniera seria. Questo 13% di persone
guadagna dai 35.000 euro lordi in su e quindi non può nemmeno beneficiare del taglio
del cuneo perché è considerato troppo ricco e non può difendersi dall’inflazione
nemmeno quando giunge alla pensione. Noi dobbiamo batterci perché i lavoratori
devono essere tutti uguali sul fronte della tassazione, inoltre si prosegue nella
disomogeneità del Sistema Tributario aggravando il mancato pagamento dell’IRPEF e la
cosiddetta iniquità orizzontale di un fisco in cui ormai la progressività riguarda solo
dipendenti e pensionati.
L’azione di contrasto alla evasione fiscale deve fare molta prevenzione, deve rafforzare le
collaborazioni tra lo Stato e le città. Il problema dell’evasione è un problema economico,
15
sociale e politico al quale purtroppo non si riesce a dare soluzione e che impatta
fortemente sull’intero sistema produttivo e sociale del nostro Paese. Produttivo, perché
l’evasione crea concorrenza sleale nella realtà economica, sociale, perché chi evade non
solo non paga le tasse, ma beneficia di aiuti e agevolazioni che dovrebbero andare a chi
realmente ne avrebbe diritto. E soprattutto genera sfiducia e lontananza verso le
istituzioni.
È necessaria la semplificazione delle norme, l’utilizzo dei sistemi informatici, banche
dati, digitalizzazione, tracciabilità delle operazioni finanziarie, l’uso dei proventi della
lotta all’evasione deve essere in gran parte utilizzata per diminuire le tasse. Così è
possibile attuare il famoso principio, “è possibile ridurre le tasse se tutti le pagano.”
Vanno ridotte le disuguaglianze che favoriscono il lavoro autonomo e la politica
finanziaria. Troppi i balzelli nel nostro sistema fiscale. Innumerevoli le tasse. Complicato
il ricorso alla giustizia amministrativa. Inadeguata la riscossione dei tributi, sono
addirittura oltre 950 i miliardi di euro che la ex Equitalia ha cumulato incapace di
riscuoterli. Insomma, occorre rimboccarsi le maniche. Si deve senza indugi procedere
alla riforma del nostro sistema fiscale, il Governo non sta andando nella giusta direzione.
Bisogna salvaguardare e introdurre il principio che a parità di reddito le tasse devono
essere le stesse. Nel nostro paese, invece, si persegue il metodo della diversificazione del
tipo di tassazione e gli esempi sono il regime forfettario per le Partite IVA che è stato
alzato a 85.000 euro e il Concordato Preventivo Biennale che in un primo momento ne
limitava l’utilizzo ai contribuenti che presentavano un indice 8 di affidabilità fiscale per
quanto riguarda gli Isa ma poi ha esteso il concordato a tutti anche a chi non arriva al
punteggio di 8, il massimo è 10. Si è anche introdotto un tetto del 10% come massimo
che può venire proposto al contribuente rispetto al reddito dell’anno preso a riferimento
e una Flat Tax che varia dal 10% al 15% sul reddito incrementale. Quindi tutti i dati di
cui dispone il fisco, non solo gli Isa, non servono più a nulla, anzi, si incentiva l’evasione
arrivando alla contraddizione più estrema: essere affidabili penalizza, perché così il fisco
partirà da un dato più corretto, mentre invece chi è evasore e acconsente a pagare
qualche cosa in più, si protegge da ulteriori verifiche che lo porterebbero fuori regola.
Inoltre, il contribuente può accettare la proposta che gli viene fatta entro metà ottobre
dell’anno in corso, cioè quando ha potuto valutare se per lui è conveniente oppure no.
La proposta dura un anno e il contribuente può uscire successivamente senza alcuna
penalizzazione nel caso non risultasse più conveniente. Un incentivo all’evasione che
assicura a chi aderisce di mettersi al riparo dall’essere considerato fuori regola con il fisco
in un momento in cui i dati indicano che gli autonomi evadono in media il 70% di ciò
che fatturano.
Da noi l’evasione continua a veleggiare su livelli impressionanti, nel triennio 2018-2020 la
media di tasse e contributi evasi ha superato i 96 miliardi di euro, è vero che nel 2020 è
stato registrato un sensibile miglioramento che ha portato il Tax Gap a 86 miliardi ma se
si guarda alla sola IRPEF si nota che il miglioramento è stato marginale ed è anche
imputabile al fatto che gran parte delle piccole partite IVA non paga più l’IRPEF ma
16
l’imposta sostitutiva del regime forfettario. Occorrerebbe una seria politica dei redditi
per fare fronte alle difficoltà che costantemente fronteggiano i lavoratori dipendenti e
pensionati tassati da sempre fino all’ultimo centesimo e che pagano anche per gli altri
contribuenti.
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A mio parere non vedo la necessità di rafforzare il sistema tributario con una nuova tassa
patrimoniale. Bisognerebbe invece, come sottolineavo prima, fare un discorso di
maggiore equità a parità di gettito che va realizzata con una riforma di carattere
complessivo e non parziale. Nel nostro paese esiste già una consistente imposizione sui
patrimoni che è anche molto aumentata durante gli anni della crisi. I patrimoni mobiliari
e immobiliari sono già sottoposti a tassazione in Italia, siamo al 2,7% del PIL, che
rappresenta una percentuale superiore alla media europea. Quello che occorre è una
revisione di questo tipo di tassazione che spinga verso l’equità, con un accurato
aggiornamento e revisione delle rendite catastali così da poter versare le imposte in base
al vero valore degli immobili e andando a superare la notevole regressività che vi è in
questi versamenti cioè il fatto che è penalizzato chi ha di meno rispetto a chi possiede di
più. A tale proposito si potrebbe fare una riflessione sulla proposta che era stata avanzata
da Vincenzo Visco che consiste nel mettere in campo un prelievo progressivo sul
patrimonio allo stesso modo di quello che viene posto sui redditi, prevedendo un’ampia
deduzione di base così da lasciare esenti i piccoli patrimoni, che comprenda anche la
tassazione sui redditi prodotti dagli stessi patrimoni. Questo permetterebbe di effettuare
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e ottenere una redistribuzione e non si arriverebbe a concepire un’imposta straordinaria
destinata solo a chi è molto ricco che rappresenta comunque una platea limitata, ma si
creerebbe un prelievo ordinario sui patrimoni, anche perché la distribuzione dei
cosiddetti grandi patrimoni è molto più concentrata rispetto ai redditi. Banca D’Italia ci
dice che il 5% delle famiglie italiane più ricche possiede il 46% della ricchezza netta
totale.
La risposta alla Riforma del Fisco non è la Flat Tax. La Flat Tax è l’imposta ad aliquota
proporzionale applicata, senza alcune eccezioni, a tutti i redditi dei contribuenti. La Flat
Tax cioè si basa su un’aliquota unica sul reddito in sostituzione delle quattro vigenti oggi.
La riduzione delle tasse così congegnata non è eguale per tutti. In sostanza rinnega il
principio costituzionale della progressività (paga di più chi ha di più) e lo sostituisce con
quello della proporzionalità (ognuno paga una percentuale identica indipendentemente
dall’entità del suo reddito). Invece di tagliare le tasse alle famiglie, sostanzialmente le
riduce in modo rilevante per i redditi alti. È un sistema di tassazione incostituzionale
perché il dovere di contribuire al sostentamento della spesa pubblica è metafora di un
più complessivo dovere che ha alla sua base il principio della solidarietà come recita
l’articolo 2 della Costituzione. Con la Flat Tax i redditi bassi non hanno alcun beneficio,
mentre chi ci guadagna sono i redditi alti, che poi solo in minima parte reinvestiranno
questi soldi in ciò che produce ulteriore ricchezza e crescita. I benefici dell’operazione,
per capire, andrebbero per un terzo al 5% del totale dei contribuenti cioè a quelli con i
redditi più alti. Ancora, la Flat Tax è difficilmente realizzabile anche dal punto di vista
delle risorse, ha dei costi enormi che farebbero aumentare ulteriormente il nostro già
altissimo debito pubblico. Inoltre, è un sistema di tassazione che non spinge
all’assunzione del rischio e frena investimenti e occupazione che verranno fatti solo nel
caso ci sia la assoluta certezza di avere dei guadagni consistenti. Se non si vorrà
aumentare a dismisura il debito, con il conseguente rischio di rialzo dei tassi, a fare le
spese di questa situazione che va a crearsi con questo sistema fiscale saranno tutti gli altri
cittadini che vedranno tagliati e ridimensionati i servizi principali come la scuola, il
welfare e la sanità per andare a compensare il minor gettito nelle casse dello Stato. Si dice
con sussiego che ci sono molti Paesi che hanno adottato la Flat Tax. Non è un esempio
convincente. Senza ironia, ecco un campionario dei Paesi che hanno la Flat Tax:
Giamaica, Estonia, Lettonia, Lituania, Russia, Ucraina, Romania, Bulgaria, Mongolia,
Mauritius, Macedonia, Albania, Kazakhistan, Bielorussia, Tobago ecc.. Non figurano
certamente nella lista né ci pensano la Germania, il Regno Unito, la Francia, gli Stati
Uniti, il Giappone.
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INDUSTRIA e TRANSIZIONE ECOLOGICA
L’Europa ha preso degli impegni concreti in tema di transizione ecologica dandosi
l’obiettivo del 2050 per giungere a diventare il primo continente a raggiungere la
neutralità climatica. Il Green Deal europeo ci porta per forza di cose ad apportare
cambiamenti importanti nel nostro modo di lavorare, di consumare, di comunicare, di
produrre, di viaggiare, di relazionarci. Questo è un processo complesso che la politica
deve gestire tenendo insieme la sostenibilità ambientale e la coesione sociale.
Ancora oggi, pur a fronte di una caduta della produzione nazionale di autoveicoli, il
settore automotive ha, nel suo complesso, un peso molto importante nell’economia
italiana. Do qualche dato significativo: L’industria dell’auto vale in Italia un fatturato di
93 miliardi di euro, pari al 5,6% del Pil e nel solo comparto della fabbricazione di
autoveicoli, operano oltre 2mila imprese e 180mila lavoratori e si realizza il 7% delle
esportazioni metalmeccaniche nazionali per un valore di 31 miliardi di euro. In
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quest’ambito, dove gli effetti della crisi pandemica hanno particolarmente pesato
sulla domanda e sulla produzione di autoveicoli, si sommano anche i pesi dei ritardi
negli approvvigionamenti di componentistica elettronica e la rivoluzione elettrica.
L’Unione europea ha previsto entro il 2035 lo stop alla vendita di nuove auto che
producono emissioni di carbonio, confermata anche dal Governo italiano. Questi
cambiamenti devono essere accompagnati da provvedimenti concreti per evitare ricadute
occupazionali pericolose, si stima infatti la perdita di 73.000 posti di lavoro e l’aggravarsi
della crisi sociale.
Aggiungo che lo scenario è drammaticamente cambiato con l’invasione russa
dell’Ucraina, la guerra in Medio Oriente. La sicurezza nazionale ed europea deve
diventare fattore centrale nelle scelte di politica energetica e industriale e devono farci
riconsiderare alcune scelte strategiche tenendo conto di quello che sta accadendo. La
Transizione Green ci pone davanti a questioni nuove perché se da una parte produce
nuovi posti di lavoro dall’altra porta anche un calo dell’occupazione nei settori ad alta
intensità energetica e quindi la necessità di un adeguamento importante su queste
questioni e una nuova riorganizzazione globale di interi settori. Occorre valorizzare e
incentivare il nostro comparto manifatturiero che ha delle eccellenze importanti e di
valore ed evitare che le fasce più deboli paghino il prezzo più alto rispetto a questi
processi per quanto riguarda l’occupazione, il reddito e la sicurezza sociale.
Dobbiamo agire innanzitutto in ambito europeo con gli strumenti sociali che guardano
in lunga prospettiva e che affrontino il tema della transizione ecologica sul lavoro. Sul
piano italiano va definito un patto nazionale per la transizione ecologica e digitale
adattandolo anche ai singoli territori dove sono presenti caratteristiche particolari ed
esperienze e realtà diverse che vanno gestite nel modo giusto per puntare ad una sinergia
per quanto riguarda le politiche industriali in un momento storico e strategico con
l’obiettivo che la transizione non diventi deindustrializzazione e per puntare a processi di
sviluppo di attività di carattere innovativo e di rilancio. Occorrono degli interventi
strutturali per rendere competitivo l’intero settore dell’auto e per incentivare l’acquisto
dei veicoli elettrici.
Certamente la transizione ecologica è un processo non più eludibile né rinviabile ma
vanno introdotte prospettive di lavoro ed iniziative politiche condivise per affrontare un
momento storico nel quale le opportunità di sviluppo si affiancano a gravi rischi.
Bisogna studiare gli impatti e le conseguenze specifiche dei cambiamenti, gestire tutte le
crisi industriali già aperte, puntare ad investimenti per sostenere la domanda verso le
tecnologie che sono compatibili con il Green Deal, promuovere investimenti a sostegno
dell’occupazione e della ricerca per valorizzare le eccellenze e le competenze italiane,
puntare ad ammortizzatori sociali per gestire la transizione e incrementare il programma
di formazione e di accompagnamento in questa nuova fase.
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È un lungo e complesso lavoro ma dobbiamo essere pronti e non arrivare impreparati, la
transizione ecologica e digitale sarà una grande opportunità per il nostro paese per
riportare al centro dell’agenda politica le politiche industriali e una sfida per l’Italia e per
l’Europa per mettere in campo strumenti innovativi per gestire nel modo migliore la
ricollocazione dei lavoratori e contenere le perdite occupazionali. Anche questo tema si
deve trasformare in una opportunità operativa per fare passi in avanti in settori
considerati strategici per l’economia e lo sviluppo del nostro paese, una opportunità che
dobbiamo cogliere e non sprecare guardando al futuro con fiducia e operatività.
Abbiamo bisogno di una politica industriale europea ma anche italiana che sia all’altezza
del momento che stiamo vivendo e attraversando capace di indirizzare le applicazioni
tecnologiche verso un modello di sviluppo nuovo. Dobbiamo introdurre dei programmi
atti a dimostrare che la competizione e l’innovazione si basano sui valori sociali e
democratici puntando ai diritti dei lavoratori, alla sostenibilità ambientale e alla lotta alle
diseguaglianze. Vanno creati degli asset a livello europeo e va fatto in modo che la
ripresa di politiche industriali nazionali non rallenti il processo di integrazione
dell’industria europea favorendo spinte nazionalistiche che oggi appaiono non solo
inefficaci ma anche dannose, perché rischiano di alimentare una competizione interna
sugli aiuti di Stato a danno dei paesi con minore spazio fiscale. La politica Industriale,
anche sul piano nazionale, va fatta procedere di pari passo e in connessione alla
risoluzione delle grandi questioni sociali ed ambientali del pianeta: il cambiamento
climatico, l’invecchiamento della popolazione, la qualità della vita, lo spostamento della
ricchezza globale. Le agevolazioni fiscali e i finanziamenti sul piano nazionale devono
essere dati alla condizione che le imprese che ne usufruiscano attuino seriamente il
rispetto dei contratti, le norme di sicurezza sul lavoro, la parità di genere e il sostegno ad
investimenti ambientalmente sostenibili. È necessaria una nuova complementarità tra
intervento pubblico ed iniziativa privata.
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Abbiamo poco tempo a disposizione per affrontare la crisi climatica: il 2023 è stato
l’anno più caldo di sempre. Nel 2023 sono stati ancora superati i record relativi ai livelli
di gas serra, alle temperature superficiali, al surriscaldamento e all’acidificazione degli
oceani, all’innalzamento del livello del mare, alla copertura del ghiaccio marino antartico
e al ritiro dei ghiacciai. Agenti atmosferici imponenti come la siccità, gli incendi, le
inondazioni hanno colpito la vita di milioni di persone influendo in maniera massiccia
sulle perdite economiche creando problemi e devastazioni. C’è da porre una sfida
importante e va chiesto con forza all’Europa l’utilizzo di strumenti efficaci, di risorse
consistenti per accompagnare le imprese nella complessa transizione, per potenziare la
capacità industriale e l’autonomia strategica europea nei settori chiave per il futuro.
Bisogna procedere con sinergia, con unità, andare in ordine sparso, ognuno per conto
proprio è inutile, perché nessun paese europeo da solo è in grado di sostenere la
competizione con Cina e USA che è sempre più consistente e poi agire da soli significa
indebolire il mercato unico. L’Italia in tutto questo contesto gioca in svantaggio, perché
non ha spazi di bilancio paragonabili a quelli della Germania o della Francia per
sostenere la propria industria. L’Europa non può e non deve tornare indietro, ci vuole
un cambio di passo per concretizzare una politica industriale comune. Il Green
Deal europeo deve avere “un cuore rosso”, la transizione verde deve essere una
transizione giusta: SURE deve diventare uno strumento permanente per accompagnare e
supportare lavoratrici, lavoratori e imprese nelle transizioni, va replicato e reso
permanente, ci vuole coraggio.
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Bisogna lavorare guardando in lunga prospettiva ad investimenti sulla base di progetti di
interesse comune europeo, tra cui idrogeno, batterie, microprocessori, cloud, materie
prime, è essenziale. Bisogna varare un Industrial Act insieme al nuovo SURE per
supportare i lavoratori di quei comparti che sono maggiormente impattati dalla
transizione, va potenziato il Fondo per la Transizione Giusta e il Fondo Sociale
Europeo, per finanziare processi di formazione in lavori green e aumentare
l’occupazione di qualità. Il piano InvestEU e RepowerEU devono essere attivati per
realizzare investimenti privati nei processi industriali chiave per l’economia circolare e la
decarbonizzazione come gli impianti di recupero di materia di scarto e re immissione sul
mercato di materie prime secondarie, compresa la componentistica per i veicoli elettrici,
la filiera per la produzione e l’utilizzo di idrogeno verde, nessuno deve essere lasciato
solo e bisogna impegnarsi e insistere per potenziare la capacità industriale europea e
l’autonomia strategica nei settori chiave per lo sviluppo.
Su piano italiano vanno attuati alcuni strumenti per accompagnare il sistema delle
imprese verso la transizione green che è il modo migliore per proteggere la vocazione
manifatturiera del nostro paese. Il verbo accompagnare è fondamentale in passaggi come
questo. Un incentivo sotto forma di credito d’imposta per l’installazione di impianti
fotovoltaici per autoconsumo sui tetti degli edifici ad uso industriale, commerciale e
agricolo. Per quanto riguarda le comunità energetiche rinnovabili l’istituzione di un
fondo rotativo di garanzia per il credito a tasso agevolato, un “Voucher Italia Digitale”
per la digitalizzazione delle piccole e medie imprese, la creazione di un Fondo da 22
miliardi di euro tra il 2024 e il 2035 per accompagnare le imprese nella conversione
ecologica e l’istituzione di una cassa integrazione speciale per accompagnare le lavoratrici
e i lavoratori nelle riconversioni industriali senza lasciare indietro nessuno. Nel
documento di Impresa Domani della Fondazione Demo abbiamo delineato le nostre
proposte principali come PD in tema di politiche industriali:
Per le PMI, appunto il voucher per la trasformazione digitale e il credito
d’imposta per l’autonomia energetica
Un credito d’imposta unificato per gli investimenti in beni tecnologicamente
avanzati, esteso ai beni legati alla transizione ecologica
Il Fondo Italia 2035 con una dotazione di almeno 5 miliardi annui, per la
conversione ecologica del manifatturiero, a partire dai settori Hard to Abate e
automotive
Il potenziamento e la proroga del Fondo Microchip
Un grande piano per la formazione delle competenze per la transizione digitale
ed ecologica
23
Roma Tavola rotonda su Previdenza Complementare
SANITA’ e PREVIDENZA
Altra riforma che incombe è quella del Sistema Sanitario e Previdenziale, ormai la
popolazione è invecchiata, l’aspettativa di vita è tra le più alte al mondo, non possiamo
limitarci a discutere di piccoli problemi, 100, 102 o 104, bisogna fare sul serio le riforme
e il sistema pensionistico va rimodellato sempre seguendo la logica della solidarietà
tenendo ben presente che i giovani e le donne sono l’anello debole della catena
previdenziale. Occorre insistere sugli strumenti di flessibilità mirata che aiutano tali
categorie all’accesso alla pensione, bisogna porsi il problema della pensione di garanzia
per i giovani lavoratori che andranno in pensione con un sistema interamente
contributivo ma in assenza dell’integrazione al minimo prevista dal sistema retributivo.
Occorre investire nella Previdenza Complementare guardando sempre alle nuove
generazioni. L’importanza oggi sempre più urgente dei Fondi Pensioni, il sindacato su
questo è arrivato in ritardo perché da sempre si è battuto per avere una Previdenza
pubblica, le prime pensioni integrative le abbiamo negli anni 50’ proprio nelle fabbriche,
24
è stato un percorso difficile, tortuoso, le cose sono poi maturate negli anni 80’ con la
contingenza della Scala Mobile.
E proprio in quel periodo si è incominciato a ragionare di previdenza integrativa in
maniera concreta e prima di tutto alcune categorie di lavoratori come quella degli edili. Si
sono dovute abbattere delle resistenze di carattere ideologico forte perché si è sempre
pensato che sia lo Stato e solo lo Stato che deve provvedere su questo tema.
I mutamenti della società ma anche del mondo del lavoro hanno spinto in questa
direzione perché si è sentita la necessità di trovare uno strumento di integrazione della
pensione pubblica, per integrare il gap pensionistico rispetto all’ultimo reddito percepito
e quindi migliorare nel complesso le prospettive future oltre a presentare questo
strumento dei vantaggi economici : Un primo vantaggio riguarda la deducibilità dei
contributi versati dal reddito dichiarato, che portano ad una riduzione del reddito
imponibile e quindi ad un risparmio sull’IRPEF. Una tassazione contenuta sui
rendimenti perché versare soldi su un fondo pensione equivale a fare un investimento
vero e proprio. In generale nel fondo pensione la tassazione sulla rendita ammonta al
20%, mentre sulla quota che deriva dal possesso di titoli di Stato la tassazione scende
al 12,5%. È un trattamento fiscale più basso rispetto a quello applicato ad altri strumenti
di investimento che in genere sono soggetti ad un’aliquota del 26%
Una tassazione migliore rispetto al TFR, quando arriverà il momento di riscuoterlo il
lavoratore dovrà pagare una tassazione piuttosto alta perché verrà liquidato in regime
ordinario e seguirà le normali aliquote. Versare invece il TFR in un fondo pensione,
porta a fare una scelta fiscalmente più efficiente perché permette di ridurre la
tassazione ottenendo un bonus fiscale fino al 34%, immaginando di poter usufruire di
tutte le agevolazioni disponibili, e poi ancora esenzione dal bollo e da oneri fiscali in caso
di passaggio ad un altro fondo.
Quello che emerge da questi dati è che le tasse sul fondo pensione sono convenienti e
quindi la scelta di adesione è interessante per diverse categorie di lavoratori, soprattutto
per chi sa già che percepirà una pensione relativamente bassa e chi teme che la propria
pensione faticherà a stare al passo con l’inflazione.
La Previdenza Complementare è un’altra sfida che dobbiamo cogliere guardando al
futuro e su cui dobbiamo investire e portare avanti con proposte concrete. E allora cosa
si può fare per migliorare il cammino tortuoso di questo strumento? Penso che oggi
occorra comunicare meglio su queste questioni, creare maggiore sinergia e sensibilità,
fare passare il messaggio che i giovani ma anche le donne sono l’anello debole della
catena previdenziale e che bisogna garantire loro un futuro economico adeguato che
spesso non riescono ad avere. Comunicare bene che la questione della previdenza non
interessa solo chi è ormai vicino all’uscita dal lavoro ma soprattutto i più giovani e i
25
professionisti che hanno appena iniziato la loro carriera. I giovani non sono informati e
conoscono poco la Previdenza perché la vivono come una dimensione lontana che non
gli appartiene. E l’altro aspetto che io penso si possa prendere in considerazione per un
miglioramento del sistema è quello di avere condizioni fiscali ancora più favorevoli e
convenienti, penso che su questo dobbiamo concentrarci e si possa lavorare in sinergia
andando ad ottenere dei risultati che favorirebbero maggiormente le adesioni con una
convenienza di carattere generale. Le risorse ci sono, pensiamo solo all’evasione fiscale
87 miliardi l’anno. I giovani vanno sostenuti guardando al futuro perché oggi i loro
percorsi lavorativi sono spesso difficili, sono fatti di stage, di lavori sottopagati, di
interruzioni professionali, di spostamenti. Investire nella Previdenza Complementare
significa investire nel futuro con intelligenza.
E allora le Riforme non possono essere calate dall’alto, devono svolgere un ruolo
propositivo e costruttivo. Le forze intermedie, il Governo non deve limitarsi a sentirle,
devono discutere con le forze intermedie e le forze intermedie a loro volta devono fare
proposte, conoscere profondamente e interpretare i cambiamenti che sono avvenuti
nella struttura del nostro paese. Il nostro paese è in ritardo su queste questioni.
Tutto questo richiede una grande capacità di semplificazione delle leggi, bisogna
semplificare le autority sono troppe e troppo spesso in conflitto tra di loro paralizzano il
paese. Occorre che le leggi tributarie, penali e civili siano eque, occorre per esempio che
si faccia una riflessione, da una parte si dice giustamente che il sindacato e i lavoratori
devono essere coinvolti nella politica delle imprese, è giusto ed è necessario, ma
altrettanto deve avvenire in alcuni enti importanti del paese come l’INPS e l’INAIL,
bisogna ripristinare la presenza in questi enti dei sindacati e delle imprese. La gestione è
stata negativa negli ultimi anni, l’INPS e l’INAIL devono essere gestiti in maniera
26
diversa, non è ancora stata fatta la separazione tra assistenza e previdenza e gli incidenti e
gli infortuni aumentano a dismisura nonostante le enormi disponibilità economiche
dell’INAIL che non vengono utilizzate nella giusta direzione.
Circolo PD Milano Centro
PNRR
Il 30 aprile 2021 l’Italia ha presentato alla Commissione Europea il Piano Nazionale di
Ripresa e Resilienza (PNRR). Il Piano intende rilanciare il Paese dopo la crisi pandemica,
stimolare la transizione ecologica e digitale, favorire un cambiamento strutturale
dell’economia, a partire dal contrasto alle diseguaglianze di genere, territoriali e
generazionali. L’Italia in questo percorso ha giocato un ruolo di primo piano e si è
battuta fortemente per giungere al risultato.
Il PNRR nella sua versione originaria prevede 134 investimenti e 63 riforme, per un
totale di 191,5 miliardi di euro di fondi. Di questi, 68,9 miliardi sono contributi a fondo
perduto e 122,6 miliardi sono prestiti. A questi stanziamenti si aggiungono le risorse dei
fondi europei React-EU e del Piano nazionale per gli investimenti complementari (PNC),
per un totale di circa 235 miliardi di euro, che corrispondono al 14 per cento circa del
prodotto interno lordo italiano. Il Governo ha cominciato a lavorare al Piano nella
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seconda metà del 2021 e dovrà completarlo e rendicontarlo nella sua interezza entro la
fine del 2026.
Il Piano si compone di sei Missioni e sedici Componenti, che si articolano intorno a tre
assi strategici condivisi a livello europeo: digitalizzazione e innovazione, transizione
ecologica, inclusione sociale. Vi sono poi tre priorità trasversali: parità di genere;
miglioramento delle competenze, della capacità e delle prospettive occupazionali dei
giovani; riequilibrio territoriale e sviluppo del Mezzogiorno. Il Piano deve contribuire in
modo sostanziale alla tutela dell’ecosistema senza arrecare danno agli obiettivi ambientali.
Le riforme e gli investimenti previsti nel Piano sono complementari. Gli investimenti
permettono l’attuazione delle riforme grazie, ad esempio, al rafforzamento delle
infrastrutture. Le riforme permettono la realizzazione degli investimenti poiché
migliorano il contesto istituzionale. Il PNRR è un piano con obiettivi e traguardi ben
definiti, da realizzare in tempi certi con una cultura della programmazione che va attuata
nella pubblica amministrazione.
La prima visione del PNRR nel 2021
Tutte le misure del Piano sono accompagnate da un calendario di attuazione e un elenco
di risultati da realizzare che è la condizione per l’erogazione dei fondi che vengono
erogati in base ai traguardi e all’avanzamento dei lavori e delle singole tappe. Questi
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indicatori si dividono in due gruppi: Milestone e Target. – Le milestone (o traguardi)
rappresentano fasi principali dell’attuazione del progetto. I target (o obiettivi) sono
indicatori concretamente misurabili con i risultati dell’intervento pubblico, come i
chilometri di ferrovie costruiti; oppure l’impatto delle politiche pubbliche.
Il Piano è la vera opportunità per il nostro paese non solo per recuperare quello che
abbiamo perso a causa della pandemia ma rappresenta la chiave di volta per lasciarci alle
spalle vent’ anni di stagnazione, questa è la vera sfida che noi dobbiamo cogliere e che
sta alla base del piano, cioè porre il nostro paese su un percorso di crescita molto più
sostenuto rispetto al passato e molto più sostenibile dal punto di vista ambientale e
sociale come ci chiede l’Europa, nel senso che l’utilizzo delle risorse europee deve attuare
un profondo cambiamento connesso anche al discorso delle Riforme che vanno
realizzate.
Gli enti territoriali sono coinvolti in maniera diretta in questo programma, come veri e
propri attuatori di una parte importante e consistente dei progetti previsti, ci sono cioè
molti progetti che cadono sotto la loro giurisdizione, il 40% del piano. Le risorse
vengono attribuite in parte sulla base di progetti di particolare rilevanza e per la maggior
parte tramite la compilazione di bandi.
I comuni sono chiamati a gestire complessivamente 60 miliardi delle risorse afferenti al
PNRR, contribuendo pertanto in modo decisivo alla messa a terra degli investimenti
previsti, in modo particolare per quanto concerne l’attuazione della Missione 2
(efficientamento energetico e gestione dei rifiuti) e della Missione 5 (inclusione e
coesione, che comprende il tema della rigenerazione urbana)
Diverse le modalità con cui i comuni partecipano al Piano. Le amministrazioni locali
partecipano alla realizzazione del PNRR in aree che variano dagli asili nido, ai progetti di
rigenerazione urbana appunto, all’edilizia scolastica e ospedaliera, all’economia circolare,
agli interventi per il sociale. Partecipano in qualità di destinatari finali alla realizzazione di
alcuni progetti attivati a livello nazionale, come quelli in materia di digitalizzazione della
pubblica amministrazione. Hanno, inoltre, un ruolo nella definizione e messa in opera di
alcune delle riforme importanti previste dal Piano in materia di disabilità, servizi pubblici
locali, turismo e in altri settori di competenza decentrata. Per questi, sarà fondamentale
un’attività in stretta sinergia e collaborazione con le amministrazioni centrali.
La vera sfida da vincere in questa complessa progettualità è la capacità amministrativa.
Per le città metropolitane e per i comuni di dimensioni maggiori è chiaramente più
semplice dal punto di vista tecnico e organizzativo per gli strumenti e i mezzi di cui
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possono disporre, il discorso è più difficile per i comuni piccoli e quindi questa diventa
una partita da giocare per fare gestire tutti al meglio questa grande opportunità, snellire
le procedure e potenziare la capacità gestionale delle risorse e il Governo si dovrebbe
impegnare per aiutare in questa direzione gli enti locali più piccoli e fare in modo che le
risorse non arrivino solo ai comuni di dimensioni più grandi ma che tutti ne possano
usufruire.
Questi programmi si intrecciano con la Legge di Bilancio perché ovviamente gli
investimenti che verranno fatti nelle infrastrutture tramite il PNRR hanno poi dei costi
per quanto riguarda il personale, i servizi, penso per esempio alle infrastrutture sociali,
sanitarie e questi costi vanno finanziati e coperti. La Legge di Bilancio dovrebbe fare, ma
non lo fa, anzi ha fatto esattamente il contrario, uno sforzo proprio su questo tema con
l’aumento dell’erogazione delle risorse a livello locale in previsione del 2026 cioè quando
queste infrastrutture saranno a pieno regime e funzioneranno e andranno sostenute nella
loro dimensione operativa quotidiana.
È una grande occasione quella del PNRR ed è anche a mio parere l’opportunità per
coinvolgere il più possibile i cittadini in questo percorso che io chiamo storico perché
nasce da un grande tragedia che è quella della pandemia, ma che ha visto l’Europa per la
prima volta ragionare e operare come una grande famiglia che mette insieme e a
disposizione le proprie risorse e questo grazie anche e soprattutto al ruolo giocato fino
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in fondo dall’Italia. Cosa ha fatto il Governo? Come si è comportato rispetto ai
programmi inziali?
Il Governo attuale è sempre stato in forte imbarazzo rispetto alla attuazione del piano
per ovvi motivi e ha iniziato una serie di rallentamenti, di ritardi e di cambiamenti di
progetti e di agenda che hanno portato a stralciare delle parti importantissime e
fondamentali. A che punto siamo? Siamo al punto che sono state spese solo la metà delle
risorse stanziate e rischiamo di andare a sbattere rispetto alla scadenza del 2026 lasciando
per strada opere e progetti.
La spesa si è fermata a 45,6 miliardi meno della metà dei 101,93 che l’Italia ha incassato
fino ad oggi. Da qui all’estate del 2026 bisognerà spendere circa 150 miliardi cioè 50
all’anno, una accelerazione impossibile se si considera che dal 2021 al 2023 quindi in tre
anni si è riusciti a impiegare appena 45 miliardi. Non è vero come cerca di asserire il
Governo che la spesa nel 2023 è stata pari a 21,1 miliardi mentre nel biennio 21 e 22 con
Draghi a Palazzo Chigi si è fermata a 24,4 miliardi perché i primi due anni del PNRR
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sono stati più del terzo caratterizzati da obiettivi da raggiungere in prevalenza di natura
qualitativa che hanno consentito di avviare le opere e le relative procedure senza
generare spesa. E inoltre altri numeri testimoniano i ritardi, lo scorso autunno con la
NADEF era stata programmata una spesa di 40,9 miliardi nel 2023 poi stretta ancora a
33,8 miliardi ma alla fine l’asticella si è fermata ancora più in basso 21,1 miliardi. I
cantieri stentano a partire e i ministeri tra i soggetti attuatori principali procedono a
rilento, si è perso molto tempo.
Vediamo dove il Governo sta tagliando, stralciando e non portando a termine le
scadenza. Innanzitutto, i comuni. Già in finanziaria sono state diminuite a dismisura le
risorse per i comuni, la prima volta dopo sette anni, tagli di risorse per gli enti locali: 200
milioni in meno per i Comuni e 50 milioni per le Province e le Città metropolitane,
ovviamente a discapito delle persone già in difficoltà perché vengono ridimensionati i
servizi di carattere primario e l’assistenza alla disabilità. Ancora nuovi tagli ai progetti del
PNRR, quelli per la gestione del rischio alluvione, per la riduzione del rischio
idrogeologico e per la mobilità sostenibile. Gli investimenti sul Repower vengono
concentrati su pochi progetti gestiti dalle grandi aziende di stato, a danno dei progetti dei
comuni a cui vengono tolti circa 13 miliardi. Un vero e proprio taglio alle comunità
locali. Tagli alle infrastrutture ferroviarie, tra cui la connessione Roma – Pescara e la
Palermo – Catania. 300 milioni tolti ai beni confiscati e un altro miliardo ai progetti
sull’idrogeno nei settori hard to abate che rischiano di penalizzare la riconversione
dell’Ilva che versa in condizioni molto preoccupanti mettendo a repentaglio il futuro dei
lavoratori e delle loro famiglie.
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Sono inaccettabili i tagli proposti dal Governo per i Comuni che tradiscono gli impegni e
le finalità del Piano mettendo seriamente a rischio la realizzazione dei progetti e delle
infrastrutture. Risulta incomprensibile il parametro di assegnazione dei tagli da distribuire
sui Comuni, la metà dei tagli è misurata in proporzione alle risorse del PNRR assegnate a
ogni amministrazione alla fine del 2023, per cui chi ha più progetti finanziati dal Piano
subisce tagli maggiori, ma con quale logica e con quali obiettivi? Si tratta del risultato
previsto dal meccanismo del MEF che con l’ultima Legge di Bilancio punta a ridurre le
risorse ai comuni, alle province e alle città metropolitane per un totale di 1,25 miliardi di
euro nel corso di 5 anni. Il 50% del taglio si rifletterà sulla spesa corrente mentre l’altro
50% sulle risorse ottenute con il PNRR. Non ha assolutamente alcuna logica costruttiva
mettere insieme la spesa corrente e le risorse che provengono dal Piano rischiando
fortemente di realizzare nuove infrastrutture che poi non avranno i fondi adeguati per
poter funzionare quando saranno a pieno regime. Ovviamente questi tagli se attuati
andranno a rivalersi su tutti quei programmi legati al welfare, alle famiglie, alle persone
fragili e al tema della disabilità e a tutto ciò che ruota intorno alla questione sociale.
Tutte le preoccupazioni vengono confermate: il governo non sa gestire il PNRR, il più
grande progetto di crescita e sviluppo che doveva servire a ridurre i divari territoriali del
nostro Paese. Siamo di fronte ad un governo che parla del Ponte sullo Stretto ma taglia
le risorse necessarie ad unire il Paese. Il rischio concreto è che non venga rispettata la
clausola del 40% delle risorse destinate al sud del paese. Con la beffa aggiuntiva del
blocco dei fondi di sviluppo e coesione prevalentemente destinati al mezzogiorno. E,
come avviene da mesi, queste decisioni vengono prese senza che il Parlamento ne possa
discutere. Le comunità locali che hanno in molti casi già avviato i cantieri per opere di
rigenerazione urbana o di contrasto al dissesto idrogeologico attendono risposte: sia sulla
copertura finanziaria dell’opera sia sugli anticipi alle imprese che si sono giudicate gli
appalti.
Aggiungo su questo tema che la Regione Abruzzo, colpita dal sisma sia nel 2009 che nel
2016, si vedrà pertanto sottrarre, senza adeguate motivazioni rispetto agli obiettivi del
PNRR e del PNC, importanti risorse già programmate per gli interventi nelle aree
terremotate a danno dei cittadini e delle imprese del proprio territorio.
Nel Piano inoltre sono contenuti programmi importanti per incentivare il lavoro e
l’imprenditorialità femminile, ci sono tutti i passaggi per procedere alla riduzione
dell’evasione fiscale dal 18,8% al 15,8% che sono stati ignorati dal Governo che ha
lasciato cadere il progetto che era uno di quelli più importanti. Il Piano ha recepito
infatti la proposta della Commissione Europea e dedica un’attenzione particolare alle
donne e all’esigenza di costruire una strategia per favorire l’occupazione femminile.
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L’obiettivo di partenza è ambizioso: un aumento del 4 per cento entro il 2026, un
risultato che sarà possibile attivando progetti di varia natura, che vanno dalla formazione
fino all’inserimento lavorativo, e ancora attraverso incentivi e misure ad hoc.
Il PNRR e i suoi programmi si impegnano su questa questione: I partenariati allargati, ad
esempio, prevedono un aumento fino al 40% delle assunzioni a tempo indeterminato di
ricercatrici. Per raggiungere questo obiettivo, si promuovono protocolli specifici con gli
ordini professionali, i consulenti del lavoro e le Università che mettano a disposizione
banche dati di curricula femminili, utili soprattutto per la ricerca di profili specifici. Il
“Fondo impresa donna”, un pacchetto di risorse che si propone di contribuire allo
sviluppo sul mercato di almeno 700 nuove imprese femminili entro il 2023, con
l’ambizione di arrivare fino a oltre 2400 entro il 2026.
Nel PNRR ci sono da destinare circa 4,5 miliardi di euro agli asili nido e alle scuole per
l’infanzia mentre questo governo nella revisione del piano ha cercato di tagliare
fortemente questi fondi. Si tratta di programmi che avranno ricadute estremamente
positive sia a livello sociale che economico: basti pensare che l’implementazione della
rete di asili nido potrebbe avere una ricaduta importante sull’occupazione e sul Pil, tanto
che, secondo una stima di Banca d’Italia, se l’occupazione femminile arriverà al 60% il
Pil potrebbe crescere di ben 7 punti percentuali.
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Aggiungo i tagli spaventosi alla Sanità pubblica all’interno del Piano una sforbiciata per
1,2 miliardi di euro ai progetti del Piano Nazionale Complementare per il programma
“Verso un ospedale sicuro e sostenibile”. Si tratta di una riduzione di investimenti già
programmati del tutto insostenibile e non regge il rinvio ad altre fonti di finanziamento.
In ogni passaggio di rimodulazione dei fondi europei o nazionali collegati al PNRR la
scure cade sulla sanità, dimenticando che all’origine di quelle risorse c’è stato il dramma
della pandemia e la necessità di colmare i divari e affrontare le fragilità del nostro
Servizio Sanitario Nazionale così come è in alto mare e non decolla il progetto
Transizione 5.0 che sarebbe stato utilissimo per il rilancio e lo sviluppo economico del
paese.
Utilizzare al meglio questi fondi rappresenta un’occasione per allargare il dibattito e
avvicinare le persone alla politica e a vivere in prima persona questo importante
passaggio dove non possiamo sbagliare ma solo realizzare puntando alla crescita, allo
sviluppo e pensando con ottimismo al futuro e in questo percorso dobbiamo esserci e
sentirci tutti coinvolti, questo deve essere il messaggio e la vera mission. Noi dobbiamo
pensare con convinzione che il successo del Recovery non dipende solo dalla politica e
da chi governa, ma a tutti i livelli dagli enti locali, aziende, cittadini, lavoratori, parti
sociali e dalla sua realizzazione dipende in gran parte lo sviluppo economico del paese e
la tenuta dei nostri conti pubblici.
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INTELLIGENZA ARTIFICIALE e INNOVAZIONE
Iniziativa provinciale PD Pavia
L’evoluzione dell’intelligenza Artificiale rappresenta un profondo cambiamento
tecnologico e umano e un’altra sfida importante su cui dobbiamo essere impegnati
portando e testimoniando gli stessi valori che abbiamo posto nelle altre sfide e cioè le
persone al centro perché questo nuovo strumento impatta soprattutto con l’individuo
come persona unica non solo come lavoratrice e lavoratore. Le trasformazioni in atto
come questa hanno bisogno in primis di formazione, una formazione accurata,
dettagliata ed efficace perché le persone devono essere preparate e informate e
dobbiamo mettere in campo degli strumenti necessari e all’avanguardia per contenere le
perdite occupazionali che inevitabilmente ci saranno con l’utilizzo di queste nuove
tecnologie al fine di ricollocare al meglio i lavoratori senza che ci siano delle ricadute
verso chi già si trova in una situazione di grave svantaggio, a tal fine è importante
utilizzare anche le norme all’interno dei contratti che aiutano ad andare in questa
direzione. L’IA avrà al contempo anche dei risvolti positivi, una cavalcata verso il
progresso in termini di competitività, di produttività e anche di aumento della ricchezza.
Sta a noi fare in modo che questa nuova ricchezza e queste nuove opportunità non si
concentrino nelle mani di pochi o di una classe privilegiata ma che sia utilizzata per
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creare benessere diffuso, diventerà una grande risorsa e dobbiamo ricordarci che questo
risultato sarà il frutto delle nostre scelte.
Hotel Tyrol di San Candido
Altra azione da mettere in campo, sempre rivolta alle persone, è fare in modo che questo
strumento possa essere utilizzato da tutti, che gli aspetti positivi che lo caratterizzano
possano essere beneficiati da tutti per non creare ulteriori diversificazioni tra chi ha la
possibilità di conoscerlo e utilizzarlo e chi invece ne viene escluso perché questo
significherebbe allargare ulteriormente le diseguaglianze. Anche questa sfida va vista e
interpretata a livello europeo, l’Europa è sempre il nostro punto di riferimento per
affrontare i cambiamenti al meglio. Dobbiamo a questo proposito riuscire a regolare gli
obiettivi non le tecnologie, non va regolata l’intelligenza artificiale ma le sue applicazioni.
Gli Stati devono essere in prima linea per gestire e comprendere gli impatti dell’IA, per
valutare ed evidenziare quelle che sono le conseguenze sociali che vanno governate.
Certamente le persone sono al centro dei processi tecnologici ma questo non basta,
occorre muoversi per guidare il mercato. Gli investimenti devono essere mirati per
sviluppare aziende europee nel settore dell’IA che abbiano un progetto chiaro e
trasparente con l’attuazione dei valori che si concretizzano nel bene comune per
costruire una società giusta, democratica e con alla base il valore della solidarietà.
E’ una tecnologia che esiste da molto tempo e che usiamo già tutti i giorni per esempio
quando guardiano you tube, siamo in presenza di un algoritmo intelligente che prende
decisioni per noi e questo esiste da quasi 20 anni. Oggi è possibile anche tradurre
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documenti in lingue diverse e abbiamo una serie di cose e di attività di questo tipo che
possiamo fare con il nostro telefono oltre a quello che si può fare negli ospedali, nella
ricerca e in diversi ambiti e già questo aveva bisogno di essere regolamentato per gli
effetti sociali che produce che non sono da poco. Poi è arrivata l’altra grande rivoluzione
del GPT in questi ultimi anni e a maggior ragione occorrono delle regole precise.
Occorre studiare e capire la strada verso cui stiamo andando e chiederci cosa può fare
l’IA per migliorare la nostra democrazia e per aiutare le persone, per il lavoro, per
l’apprendimento, per le politiche fiscali. A livello europeo si sta cercando di ridurre i
rischi del suo utilizzo con una regolamentazione obbligatoria con un percorso graduale
per mettere un po’ di ordine. La prima cosa che entrerà in vigore sono i divieti, cioè in
Europa ci saranno alcuni usi di Intelligenza Artificiale vietati perché vanno a ledere la
dignità e la libertà delle persone, l’uso delle telecamere a riconoscimento biometrico, il
riconoscimento delle emozioni nei luoghi di studio e di lavoro, la polizia predittiva ecc…
che sono già state usate in alcuni paesi europei e che non vanno bene e questa è stata una
scelta importante nell’Unione. Nei prossimi anni ci sarà un’implementazione di questo
lavoro al fine di rendere operative queste regole e rendere sicuro l’utilizzo di questo
strumento.
Dobbiamo chiederci come cambierà il mondo del lavoro, sicuramente aumenterà
l’efficienza e anche la produttività, verranno richieste nuove specializzazioni e
competenze ma ci saranno anche delle problematiche di carattere sociale perché ogni
trasformazione ha in se limiti e rischi. L’IA è priva di personalità, che è tipica degli esseri
umani ma anche di pensiero critico, di converso consente di svolgere molte attività in
maniera molto più veloce e anche migliorativa con una buona sintesi. Ma anche qui,
anche in questo contesto, dobbiamo chiederci e interrogarci su come proteggere le
persone dai pericoli che queste innovazioni portano inevitabilmente con sé. Le persone, i
loro diritti, la loro privacy vanno poste al centro del dibattito e dell’organizzazione di
queste innovazioni. Anche l’IA è e sarà l’occasione di rimettere al centro l’individuo
come persone unica e porre attenzione alla riduzione delle diseguaglianze e al
coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori. Insisto nel dire che l’innovazione, la
voglia e la speranza di futuro e cambiamento possono e devono dimostrare di basarsi su
valori sociali e democratici. Solo così riusciremo al meglio a gestire e a trarre le migliori
opportunità da questi cambiamenti e dall’innovazione tecnologica. Abbiamo di fatto tutti
gli strumenti e le competenze oggi per operare in questa direzione, senza paura e senza
tentennamenti ma guidati dai valori che vogliamo inserire in queste sfide e in questi
cambiamenti.
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Circolo De Amicis Milano
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PARITA’ SALARIALE
La questione di genere oggi è e deve essere al centro del dibattito e dell’agenda politica
anche e soprattutto a fronte delle vicende drammatiche di cui siamo stati protagonisti e
che abbiamo vissuto in questi ultimi anni.
Oggi occorre rinnovarsi nella società e nei suoi ambiti. Questo percorso deve diventare
un’opportunità di cambiamento e di arricchimento che sarà efficace se sarà capace di
dare piena rappresentanza alle donne nella politica e nelle istituzioni così come nelle
professioni. Un vero cambio di passo deve passare oggi attraverso il confronto tra
generi, tenendo presente che la questione di genere rappresenta la linea di demarcazione
tra una evoluzione della società che coinvolge e sviluppa i diversi talenti e una
involuzione della stessa in cui le donne rimangono a disposizione del potere che di fatto
rimane maschile. La società ci mostra ancora l’immagine di una donna su cui gravano
molte problematiche del nostro tempo e lo stesso lavoro rimane ancorato nell’ambito di
una competizione prettamente maschile. Oggi i dati ci dicono che le donne sono molto
più istruite rispetto ad un tempo, i dati della Banca D’Italia, spesso ignorati anche da chi
ci governa, ci dicono che le donne portano maggiormente a termine il percorso di laurea
rispetto agli uomini e con votazioni maggiori, ma nella vita professionale e nei percorsi
di carriera conta ancora molto, e sembra paradossale, il ruolo o la professione del padre
o del marito e il loro intervento, la loro influenza.
Occorre maggiore attenzione alla vita concreta delle donne che da sempre si sono fatte
carico di un welfare familista a causa della mancanza di servizi. Bisogna investire in
nuove politiche a vantaggio delle famiglie che garantiscano e promuovano pari
opportunità. È necessario in questa direzione potenziare le norme per poter conciliare i
tempi di lavoro e quelli di cura che permettano, in una moderna visione, di restituire
all’uomo uno spazio nella vita privata e alla donna uno spazio in quella pubblica
proponendo una relazione più autentica nella distribuzione di ruoli e compiti. Investire
inoltre sulle donne in campo professionale è una necessità per lo sviluppo del paese, i
dati ci dicono che i paesi più sviluppati sono quelli dove vi è minore disparità di genere, il
lavoro delle donne fa aumentare notevolmente il PIL e in tutto questo vi è una
convenienza economica e pubblica oltre che soggettiva.
Le donne guadagnano meno degli uomini, decisamente meno: le legge è uguale per tutti,
i contratti pure, ma nel corso della loro vita lavorativa le carriere, le interruzioni, le scelte
fatte o subite fanno sì che questa parità sia solo apparente. Un rapporto diseguale con il
reddito e con l’indipendenza economica accompagna le donne dall’infanzia alla pensione,
se lavorano. Si chiama Gender Pay Gap : è la differenza che corre, a parità di mansione,
tra lo stipendio di un uomo e quello di una donna e da qualsiasi punto venga effettuato
l’osservatorio il finale però non cambia : la busta paga delle donne è sempre più leggera.
L’Italia si piazza al 63° posto su un panel di 156 paesi che attuano la parità salariale.
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I dati ISTAT ci dicono che l’occupazione femminile è cresciuta ma in un mercato del
lavoro che secondo le statistiche è il migliore da 30 anni, le italiane arrancano ancora
parecchio rispetto alla media europea. Le occupate sono arrivate sì a 9,87 milioni
recuperando il calo notevole dovuto al Covid ma il 2024 si apre con un dato che
certamente non è positivo, cioè l’occupazione femminile è arrivata al 55% e l’Italia
scivola all’ultimo posto nell’Unione Europea per percentuale di occupazione femminile
che è di circa 14 punti percentuale al di sotto della media UE che è del 69,3% quindi il
tasso di occupazione femminile è migliorato rispetto alla fase più acuta della pandemia
quando era calato nuovamente sotto la soglia del 50% ma comunque è ancora molto
distante dalla media europea e dalla soglia del 60% che secondo la strategia di Lisbona
avremmo dovuto raggiungere entro il 2010. Oggi, come allora, la meta di 6 occupate su
10 continua ad essere un obiettivo lontano.
Le donne inattive sono il 42,6% mentre gli uomini il 25,2%, la non partecipazione al
mondo del lavoro è ancora femminile e il lavoro spesso nemmeno si cerca. L’asimmetria
nel lavoro di cura rimane una zavorra, per le donne rappresenta oltre il 62% sul tempo di
lavoro complessivo della coppia di partner occupati. L’altro nodo è quello della
maternità che continua a rappresentare un ostacolo non solo alla crescita professionale
ma anche al lavoro in sé. Secondo i dati INAPP dopo la nascita di un figlio quasi una
donna su 5 tra i 18 e i 49 anni non lavora più e solo il 43,6% permane nell’occupazione.
Motivazione prevalente la conciliazione tra lavoro e cura per il 52% seguita dal mancato
rinnovo del contratto o dal licenziamento per il 29%.
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Ancora il lavoro delle donne quando c’è è più precario di quello degli uomini e meno
retribuito. La quota dei contratti stabili incide per il 20% su quelli maschili e per il 15%
su quelli femminili. Sulla totalità dei nuovi contratti delle donne il 49% è a tempo
parziale contro il 26,2% degli uomini. Precarietà e tempo parziale rendono inevitabili i
contraccolpi sulle retribuzioni. Eurostat ci fotografa un Gender Pay Gap del 13% in
media nell’Unione Europea con l’Italia che va dal 4,1% del Settore Pubblico al 16,5% del
Settore Privato, le vette qui da noi si raggiungono nelle professioni scientifiche e tecniche
26% e in quello della finanza 22,9% che sono gli ambiti dove le donne sono meno
impiegate. Infine, diseguaglianza chiama diseguaglianza, l’INPS evidenzia come sul totale
di 305 miliardi di euro di pensioni erogate, solo il 44% sia stato corrisposto alle donne, la
differenza tra uomini e donne nel reddito da pensione è di oltre 6 mila euro.
Spesso senza essere consapevoli delle conseguenze che ciò comporterà, le donne cadono
nel tranello della cosiddetta “segregazione occupazionale”: scelgono cioè lavori più adatti
alla loro situazione caratterizzati da retribuzione bassa e scarsa prospettiva di carriera, ma
più compatibili con la gestione familiare perché magari garantiscono vicinanza a casa,
orari di routine, assenza di trasferte. Le donne non possono più essere il pilastro del
nostro sistema di welfare, non possono più farcela. Non possono sostituirsi come prima
all’attività dei servizi sociali e sanitari. Vogliono lavorare, vogliono realizzarsi su tutti i
piani, vogliono avere figli che oggi spesso non riescono ad avere e vogliono affermarsi
anche sul lavoro. La politica deve capire che questa è una priorità essenziale per il
rilancio del nostro paese.
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Oggi su queste questioni abbiamo una grande opportunità offerta dal PNRR con le
risorse provenienti dall’Europa, anche se purtroppo questo Governo è in ritardo sui
progetti e non sta lavorando nella giusta direzione secondo quanto è stato anche
concordato con la Commissione Europea.
Fondamentale è investire nella protezione sociale e nel welfare per l’infanzia. Sono
aspetti questi tutt’altro che trascurabili, soprattutto se agli asili nido vengono affiancati
progetti di diffusione del tempo pieno con servizio mensa e il potenziamento delle
infrastrutture sportive a scuola e dei servizi socioassistenziali, per disabilità e marginalità,
potenziare anche le connessioni, la rete dei trasporti per permettere di muoversi meglio e
con più facilità riducendo i tempi.
È stata votata la Direttiva Europea che sancisce per l’ennesima volta la parità retributiva
tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore e il divieto di
discriminazione in materia di occupazione e impiego per motivi di genere. L’UE intende
rendere trasparenti le informazioni sui vari livelli retributivi e sviluppare strumenti e
metodologie che rendano semplice valutare e confrontare il valore del lavoro. La
trasparenza è certamente un passo in avanti ma non è sufficiente perché da un punto di
vista normativo non esiste una regola di parità di trattamento cioè il datore di lavoro
rimane comunque libero di retribuire in maniera diseguale i lavoratori purché queste
differenze siano motivate sulla base di criteri oggettivi e neutri rispetto al genere e quindi
si dà il caso che si possano trovare moltissime ragioni per giustificare il trattamento
differenziato. Sul piano retributivo i minimi tabellari sono uguali per uomini e donne, ma
ciò che cambia è la parte variabile della retribuzione. Quindi l’inquadramento e la relativa
retribuzione possono essere determinati da fattori diversi dal mero tempo di lavoro o
dall’anzianità professionale, ed è assai probabile che nonostante la direttiva permangano i
gap retributivi perché l’eguaglianza di opportunità è cosa ben diversa dall’eguaglianza
formale. Per attuare la prima occorrono investimenti pubblici ben precisi per fare in
modo che le condizioni di partenza e di competitività tra uomo e donna siano le stesse
ma questo non è un problema che può affrontare in maniera fattiva la direttiva votata
che non risulta efficace ma soprattutto risolutiva.
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Quale è il significato di tutto ciò? Che il tempo guadagnato dalle donne è la via per
evolvere la società, lì dove le donne hanno spazio aumenta il livello di istruzione e quello
imprenditoriale, calano la violenza, la fame, la povertà, diritti femminili e società più sana
viaggiano di pari passo. Quindi il lavoro, la carriera e gli spazi delle donne migliorano la
vita di tutti facendo crescere comunità e paese intero, su questo dobbiamo insistere.
Questo vale anche e soprattutto in ambito economico, bancario e finanziario, anche qui
sono stati fatti certamente passi in avanti, penso per esempio agli obblighi di
comunicazione delle informazioni di carattere non finanziario che accrescono la
consapevolezza e la trasparenza delle banche sui loro risultati e su come le risorse
impattano sulle loro attività. In quest’ottica incoraggiare e valorizzare la partecipazione
delle donne, rimuovendone anche gli ostacoli culturali che permangono nel settore, deve
essere un obiettivo primario. I benefici che ne derivano a favore degli intermediari
finanziari che creano un ambiente diversificato e inclusivo sono importanti perché la
diversità è un bene essenziale, specie negli organi di vertice, aumenta la creatività, le idee,
evita la monotonia dei progetti e assicura un processo decisionale efficace e il
raggiungimento dei piani di lavoro.
Con la Legge Golfo Mosca sono stati per la prima volta introdotti nel 2011 obblighi di
parità di genere negli organi di amministrazione e delle società quotate nei mercati
regolamentati, le quote sono state poi prolungate e aumentate. La diversità di genere è
un valore promosso anche dalla Banca D’Italia nelle disposizioni di vigilanza delle
banche ed è stato introdotto l’obbligo per i board delle banche di avere una
composizione diversificata nella sua accezione più ampia, non solo quindi in termini di
genere ma anche di età, competenze e provenienza geografica perché la diversità di
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competenze e caratteristiche è un valore aggiunto e primario per concretizzare i progetti
e giungere ai risultati prefissi. Questo tipo di iniziative sono in corso anche a livello
europeo e internazionale. Per esempio il G7 è intervenuto proprio sul discorso della
partecipazione femminile ai temi economici e per raggiungere questi obiettivi non basta
il rispetto delle quote imposte dalla legge ma serve garantire parità di condizioni
competitive tra i generi che richiede appunto di riequilibrare il GAP salariale ma anche di
approntare un sistema di welfare adeguato perché le donne possano dedicare il tempo
necessario alla loro carriera lavorativa, questo è il punto principale, bisogna realizzare
uguali opportunità di partenza e di competizione.
Cito ancora qualche dato, come dicevo prima i paesi dove vi è minore disparità di genere
sono quelli più sviluppati. Il Fondo Monetario Internazionale afferma che il tasso di
occupazione femminile rappresenta uno stimolo fortissimo alla crescita del PIL e più
precisamente aumenterebbe l’economia globale ben del 35%, un pensiero questo
condiviso dalla Harvard Business School secondo cui una piena parità di generi nel
mercato del lavoro con una attenzione al campo economico e finanziario porterebbe a
fine 2025 ad avere un PIL globale annuo pari al 26%. La Gender Economics, l’economia
di genere, è un filone di ricerca proprio atto a dimostrare che le politiche di genere
influenzano l’andamento economico di un paese e su questo assunto si impegna a
contrastare le diseguaglianze di genere per realizzare un cambiamento globale.
Tavola rotonda Parità Salariale
Permettetemi poi di aggiungere qualche considerazione politica. Fattore D, donna, non è
una questione di nicchia. È un fattore decisivo per il rilancio della sinistra. Dobbiamo
valorizzare le donne, la loro cultura, la loro concretezza, la loro creatività. Oggi le donne
non vanno solo difese vanno valorizzate e dobbiamo ricordare quante donne sono state
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e sono decisive in passaggi fondamentali e complessi del nostro paese. In un mondo
dove dominano le ansie, le paure, i dubbi, l’apatia, la rassegnazione, le donne sono
necessarie perché capaci di ricostruire fiducia, di realizzare i sogni, di alimentare le
speranze. Le donne sanno recuperare quel senso di comunità, quei fattori di solidarietà
che sono decisivi per dare risposte esaurienti alle domande della gente. Occorre un
cambio di passo decisivo con la messa in campo degli strumenti adatti, potenziare i
servizi per la prima infanzia che mancano soprattutto nel Mezzogiorno, creare un
bilanciamento vero e proprio per i carichi di cura che oggi sono sulle spalle delle donne,
incrementare le politiche sulla genitorialità e lavorare per modificare davvero quelli che
sono i fattori culturali consolidati. Non è più pensabile né accettabile che le donne siano
messe oggi davanti al bivio della scelta se lavorare o andare in maternità, la questione da
risolvere è quella della conciliazione e delle medesime opportunità di partecipare al
mondo del lavoro e della professionalità. L’Italia, infatti, si colloca tra i paesi peggiori in
Europa per quanto riguarda l’equilibrio vita – lavoro a scapito ovviamente della parte
femminile. Una donna su cinque dopo avere avuto il primo figlio si ritira dal lavoro
perché non ha servizi a disposizione o sono troppo costosi e nella famiglia restano a casa
le donne perché sono quasi sempre quelle che hanno lo stipendio più basso e quindi vi
rinunciano. Senza sottovalutare le competenze che le donne hanno sviluppato come la
gestione al meglio del tempo, organizzazione, sensibilità, empatia, capacità di fare
squadra, resilienza in situazioni con evidenti difficoltà, determinazione verso gli obiettivi
che sono tutte caratteristiche ricercate nelle grandi aziende e nelle organizzazioni.
Questo è il percorso che oggi va intrapreso su questi temi per andare incontro ad una
società migliore per tutti. Battersi per i diritti delle donne, per i loro spazi, per la loro
valorizzazione ha un ritorno di benessere, progresso e futuro di speranza per tutti e la
nostra forza deve essere il gioco di squadra e la sinergia tra di noi, non la competizione
tra noi ma l’unità pur nelle differenze e il lavoro insieme per agire sui temi ma anche per
cambiare e modificare una mentalità e un modo di pensare consolidato che è anche la
causa della violenza che si abbatte sulle donne, che fatica a sradicarsi, ci vuole una vera e
propria azione educativa a partire dagli uomini che devono avere in questo percorso un
ruolo decisivo ma soprattutto una presa di coscienza forte che oggi manca. Questo deve
essere il nostro obiettivo.
46
Brescia convegno sul lavoro
INDICE
PREFAZIONE………………………………………………………………………3
PREMESSA…………………………………………………………………………5
LAVORO…………………………………………………………………………….. 9
FISCO………………………………………………………………………………13
INDUSTRIA e TRANSIZIONE ECOLOGICA…………………………………….19
SANITA’ e PREVIDENZA………………………………………..………….…..24
PNRR…………………………………………………………………………………27
INTELLIGENZA ARTIFICIALE e INNOVAZIONE……………………. …..….35
PARITA’ SALARIALE………………………………………………………………39
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