Il processo contro Google: una battaglia antitrust epocale
«Cosa succederebbe se decidessi di smembrare Google?». L’arma di fine mondo dunque è lì, esposta in bella vista nell’aula del tribunale del distretto Est della Virginia. Ad estrarla, nel terzo giorno di udienza di “Stati Uniti contro Google”, secondo atto della battaglia antitrust del secolo, è stata la giudice Leonie Brinkema, a cui spetta la sentenza finale. Breakup, cioè separazione delle attività, smembramento, spezzatino: l’intervento Antitrust più radicale. Il rimedio a cui ricorrere solo quando una posizione è talmente dominante che niente altro basterebbe a ristabilire la concorrenza. Non è detto che si arrivi a tanto, per ragioni tecniche e politiche. Prima di tutto: non è detto che alla fine Google sia trovata colpevole. Ma che Alphabet, Meta, Apple e Amazon siano alla sbarra, che l’ipotesi di breakup sia lì e cominci perfino ad essere considerata dai mercati: basta questo per dire che attorno a Big Tech è cambiato il mondo.
È il ritorno dell’Antitrust, dopo anni in cui il regolatore aveva chiuso uno, o forse due occhi di fronte alla crescita di colossi mai visti, nati in un garage a colpi di innovazione, ma cresciuti anche grazie ad acquisizioni in serie e alla forza centripeta che muove l’economia digitale, dove la massa — di dati e utenti — genera altra massa. L’Europa ha suonato la sveglia, di questo le va dato atto, facilitata e ostacolata dal fatto che quei colossi siano americani. Ora però è negli Stati Uniti il fronte più caldo, visto che un approccio diverso del presidente Biden ha scatenato le azioni parallele del dipartimento di Giustizia (contro Google e Apple) e della Federal Trade Commission di Lina Khan (contro Amazon e Meta), paladina della concorrenza che di breakup parla da anni. La prima ad arrivare a sentenza, un mese fa, è stata Stati Uniti contro Google atto uno, sul dominio nelle ricerche online. Colpevole: per il giudice Amit Mehta «ha monopolizzato in maniera illegale il mercato», stringendo accordi con i produttori di smartphone e gli operatori telefonici per rendere la propria barra la scelta predefinita per i loro clienti. Accordi per cui sborsa miliardi, 20 all’anno solo ad Apple.
In attesa che il giudice Mehta proponga i rimedi, ci potrebbe volere un anno, e del certo ricorso di Google, di fronte alla corte della Virginia soprannominata “il razzo” per la sua velocità è iniziato il secondo round. Una causa di complessità estrema, dove ai tecnicismi antitrust — definire un mercato, una posizione dominante, il danno per concorrenti e consumatori — si aggiunge l’oscurità del settore in questione, quello della pubblicità online che Google ha rivoluzionato e che oggi domina, garantendosi fatturato, margini e utili mai visti.
Il ruolo dell’Unione Europea nella regolamentazione di Big Tech
La crescente preoccupazione per il potere e l’influenza delle Big Tech ha spinto l’Unione Europea (UE) a prendere misure rigorose per regolamentare il settore. Negli ultimi anni, l’UE ha dimostrato un atteggiamento proattivo nella lotta contro le pratiche monopolistiche e le violazioni delle normative antitrust da parte di aziende come Google e Apple. Recentemente, la Commissione Europea ha emesso sentenze storiche, imponendo gravi sanzioni a tali colossi tecnologici, come la multa di 2,4 miliardi a Mountain View per pratiche commerciali scorrette.
Margrethe Vestager, Commissario europeo per la concorrenza, ha affermato chiaramente che “Nessuno è sopra la legge”. Questa affermazione sottolinea la determinazione dell’UE nel garantire che le normative siano applicate equamente, senza eccezioni per le aziende più potenti. La situazione attuale evidenzia il contrasto tra l’approccio europeo e quello statunitense, dove i colossi tecnologici hanno storicamente goduto di un’ampia libertà operativa.
Le azioni della Commissione Europea sono di fondamentale importanza non solo per promuovere la concorrenza, ma anche per proteggere i consumatori e garantire un mercato equo. Le sanzioni imposte servono da monito e hanno contribuito a una maggiore consapevolezza globale riguardo all’importanza di una regolamentazione efficace nel settore digitale.
Inoltre, l’UE sta sviluppando nuove normative, come il Digital Markets Act (DMA), che mira a prevenire comportamenti anti-competitivi prima che possano instaurarsi. Questo approccio preventivo rappresenta un cambiamento significativo nella strategia antitrust, riflettendo la posizione dell’Europa come pioniera nella regolamentazione delle tecnologie emergenti e nel tentativo di stabilire un equilibrio tra innovazione e concorrenza.
Le cause di dominio di Google nel mercato pubblicitario
Il governo dovrà dimostrare che questo dominio è stato conquistato e mantenuto da Google non perché offra servizi migliori, ma imprigionando i clienti ed escludendo i concorrenti. E che la soluzione che presenta come più efficiente per tutti — vendere l’attenzione dell’utente giusto al miglior inserzionista offerente, nel migliore spazio disponibile — è in realtà un meccanismo opaco. Mica facile. Ma ripercorrendo la crescita della società che ha definito la nostra epoca, raggiungendo con le altre Big Tech valutazioni triliardarie, è chiaro che sono state decisive una serie di acquisizioni, a cominciare da DoubleClick nel 2008 con il suo enorme portafoglio di spazi pubblicitari offerti dai grandi editori.
Il controllo che Google esercita sul mercato pubblicitario online è perciò il risultato di un mix di strategie aggressive e tecnologie avanzate, che hanno portato a una posizione quasi monopolitica. Attraverso la creazione di una piattaforma centralizzata, Google è in grado di gestire sia l’offerta di spazi pubblicitari che la domanda proveniente dagli inserzionisti. Questo sistema di aste in tempo reale funge da intermediario tra editori e inserzionisti, ottenendo dati vitali su abitudini e preferenze degli utenti, accrescendo ulteriormente il proprio potere di mercato.
La tesi dell’accusa si fonda sull’idea che Google abbia manipolato il mercato a suo favore, creando barriere all’ingresso per i nuovi competitor e approfittando della sua posizione dominante per garantire fatturati sempre crescenti, a discapito di una normale competizione. Infatti, la capacità di Google di ottimizzare i risultati delle campagne pubblicitarie e il targeting degli utenti, sfruttando l’enorme base di dati a sua disposizione, basta a intimidire i concorrenti e limitare le loro possibilità di sviluppo.
In un settore in continua evoluzione, dove i dati sono la nuova moneta, Google non solo ha ridefinito il concetto di pubblicità online, ma ha anche stabilito standard che risultano difficili da contestare per chiunque cerchi di entrare nel mercato. La sua strategia, che include acquisizioni mirate e innovazioni tecnologiche, rappresenta un modello di business che risulta sempre più problematico da scardinare senza un intervento deciso e ben mirato da parte delle autorità antitrust.
Possibili rimedi e scenari futuri per il mercato digitale
Il governo dovrà dimostrare che questo dominio è stato conquistato e mantenuto da Google non perché offra servizi migliori, ma imprigionando i clienti ed escludendo i concorrenti. La complessità della causa risiede nella difficile prova che l’accusa deve fornire. Un aspetto centrale della discussione riguarda se la soluzione presentata da Google, ovvero quella di vendere l’attenzione dell’utente giusto al miglior inserzionista offerente nel migliore spazio disponibile, sia realmente efficiente o un meccanismo opaco volto a mantenere la sua posizione dominante.
Oltre all’eventualità del breakup, ci sono rimedi intermedi più specifici già testati in altre occasioni, come il divieto di accordi esclusivi tra Google ed Apple o l’obbligo per le piattaforme di aprire i loro ecosistemi a operatori concorrenti. Queste misure, adottate nel passato durante il noto caso contro Microsoft all’inizio degli anni 2000, potrebbero rappresentare un approccio pragmatico per aumentare la concorrenza senza dover ricorrere a misure così drastiche come lo smembramento della società. Inoltre, l’Europa ha già iniziato ad adottare norme simili con il Digital Markets Act (DMA), volto a prevenire comportamenti anti-competitivi.
La questione della condivisione dei dati degli utenti emerge come un altro potenziale rimedio. Imporre alle piattaforme l’obbligo di condividere i dati potrebbe ridurre il potere di Google nel mercato digitale e promuovere un ambiente più competitivo. Tuttavia, una misura del genere solleva interrogativi significativi sulla privacy degli utenti e sul controllo delle informazioni personali.
Mentre gli scenari si delineano, resta cruciale il dibattito su quali misure siano necessarie per mettere i freni a colossi come Google senza ostacolare l’innovazione. Alcuni esperti avvertono che la cura potrebbe risultare peggiore del male, suggerendo un approccio più graduale e mirato. Trovare un equilibrio tra regolamentazione e sviluppo tecnologico sarà il compito più difficile per i legislatori e i regolatori, in un contesto in rapida evoluzione e sempre più influenzato dall’intelligenza artificiale.
Le implicazioni politiche e il contesto bipartisan della questione antitrust
Prima ancora delle considerazioni tecniche, a determinare in che misura il mondo digitale, inclusa l’intelligenza artificiale, dovrà tornare nei paletti di una salutare concorrenza sarà la politica. Il cambio di approccio dell’amministrazione Biden è emerso da un consenso ampio, non solo accademico, sul fatto che il potere delle piattaforme tecnologiche sia diventato eccessivo. Questo consenso è bipartisan, sebbene sia presente una divergenza tra i partiti rispetto a quali aziende debbano essere principalmente focalizzate.
I Repubblicani, ad esempio, si concentrano prevalentemente su Google e Meta, accusandoli di orientare il dibattito digitale su posizioni progressiste. Figure come J.D. Vance, il vice scelto da Trump e già investitore in Silicon Valley, si sono espresse con forza a favore dello smembramento di Google. Tuttavia, rimane da vedere quanto il partito di Trump ascolterà questa posizione nel caso di un ritorno al potere. Un eventuale successo della dem californiana Kamala Harris non garantirebbe una prosecuzione della linea Biden, considerata la sua vicinanza alla Silicon Valley. La super avvocata che ha preparato Biden al recente dibattito televisivo è tornata successivamente in aula in Virginia a difendere Google, evidenziando una possibile ambivalenza alla base della questione.
Questo panorama complesso rende ancora più distante l’ipotesi di uno smembramento di Google, ma la discussione sulle punizioni esemplari ha già iniziato a farsi sentire nei mercati. Il Wall Street Journal ha notato che, negli ultimi mesi, Google ha registrato performance inferiori rispetto ai suoi coetanei nel settore digitale. Questo timore di una potenziale sanzione sta già influenzando il sentiment degli investitori, un segnale che potrebbe avere ripercussioni significative per l’azienda e per Big Tech nel suo insieme.
In definitiva, mentre il contesto politico gioca un ruolo cruciale nella definizione delle strategie antitrust, l’equilibrio tra regolamentazione e libertà d’azione delle aziende tecnologiche rimane un tema caldo e in continua evoluzione. La questione di come gestire l’influenza delle Big Tech rappresenta una sfida non solo per i legislatori, ma anche per la società nel suo complesso, in un’epoca in cui il digitale permea ogni aspetto della vita quotidiana.