Pablo Trincia e il suo percorso narrativo
Il caso Elisa Claps, Veleno, Il dito di Dio, Megalopolis, Sangue loro. Con le sue narrazioni, Pablo Trincia è diventato protagonista di un genere narrativo che ammalia e fa rabbrividire, scrutando l’abisso con un pizzico di voyerismo e rivelando: «Sono entrato in terapia per affrontare il dolore di cui mi sono fatto carico raccontando queste storie». Classe 1977, nato a Lipsia – lì dove viveva da esule la madre – Trincia abita a Milano dall’età di quattro anni e parla sette lingue. Si racconta nell’autobiografia Come nascono le storie. Il mio viaggio nell’arte di raccontare (ROI Edizioni, pp.192 €19,90).
Il segreto del suo talento? «Lo storytelling è una forma di seduzione», spiega. Ma in queste pagine affronta anche la sua storia di famiglia, sfogliando i documenti del nonno materno, torturato dal regime iraniano: «C’è un filo rosso che ci lega, abbiamo in comune l’odio per tutte le ingiustizie». Trincia è noto per il suo approccio che mescola inchiesta e empatia, mettendo a nudo la fragilità umana in racconti già noti, ma sempre carichi di nuovi spunti di riflessione.
Il suo lavoro non si limita a portare alla luce casi di cronaca nera; è una ricerca di giustizia e verità, dove sviscera il dolore e il vissuto di personaggi coinvolti in tragedie reali. Attraverso il suo percorso narrativo, riesce a farsi portavoce delle vittime, rendendo le loro storie indimenticabili e necessarie, con un impatto emotivo che segna in modo indelebile l’ascoltatore e il lettore.
La storia personale e familiare di Pablo
All’anagrafe, Pablo Trincia è registrato come Pablo Pirnz Enrico. Il nome Pablo è stato scelto in omaggio a Picasso, mentre Enrico si ricollega a Berlinguer. La curiosità, però, si concentra sul cognome: «Pirnz», una storpiatura del nome originale. Suo padre ha scelto il nome Piruz, che in persiano significa “vincitore”, come auspicio per la sua vita. Purtroppo, a causa di una grafia non comune, il nome è stato trascritto in modo errato all’anagrafe, portando a anni di derisione a scuola.
Ma il viaggio di Trincia nella sua storia personale non si limita a questo. Ha finalmente affrontato il suo passato familiari, particolarmente in relazione a suo nonno materno, Ehsan Tabari. Quest’ultimo è stato uno dei fondatori dell’Hezb-e Tudeh, il partito comunista iraniano, e ha subito l’orrore della tortura sotto il regime. «Ho rivissuto gli incubi della nostra famiglia», racconta. Esplorando le memorie e i documenti del nonno, Trincia ha potuto confrontarsi con le proprie radici e le ingiustizie che hanno segnato la sua famiglia.
Questo atto di scrittura e riflessione lo ha portato anche a confrontarsi con il proprio senso di identità e a superare, in parte, la sindrome dell’impostore che lo ha accompagnato per anni. «Ero una pippa a scuola», confessa, eppure è diventato un maestro nel raccontare storie che toccano l’anima. Con il desiderio di dar voce a chi non ha voce, Trincia riscopre un legame profondo e il suo impegno a non restare in silenzio di fronte alle ingiustizie.
La sua narrazione si trasforma così da un semplice atto di scrittura a un potente strumento di giustizia. «Alla storia di mio nonno mi accomuna l’impossibilità di restare zitti dinnanzi alle ingiustizie», afferma, rivelando una passione che si estende oltre il personale per abbracciare una dimensione collettiva e universale, rendendo il suo percorso autentico e profondo. La storia della sua famiglia diventa non solo un tema personale, ma anche un catalizzatore per riflessioni più ampie sul dolore, l’ingiustizia e il valore della verità.
L’impatto emotivo di Veleno e della terapia
Parlare di storie di dolore e ingiustizia ha portato Trincia a confrontarsi con esperienze emotivamente devastanti. La narrazione di Veleno, in particolare, ha avuto un forte impatto su di lui. «Giornalmente avevo a che fare con famiglie distrutte, genitori privati dei figli senza alcun motivo», racconta. Questo tipo di contatto costante con il dolore altrui ha iniziato a scavare un solco profondo nel suo animo. Per affrontare tutto ciò, il giornalista ha riconosciuto la necessità di ricevere supporto professionale.
Così, Trincia ha deciso di entrare in terapia. «Ho i nervi scoperti, rischiavo di perdermi», afferma, sottolineando come l’accumulo di sensazioni ed emozioni fosse diventato insostenibile. La terapia si è rivelata una scelta necessaria, un modo per elaborare tutto quel peso emotivo e trovare un equilibrio interiore. A trent’anni, la vita sembrava un turbine, ma con il passare degli anni e l’arrivo della paternità, la situazione è cambiata. «Stavo affondando» ammette, evidenziando come la responsabilità da genitore e il confronto con il dolore vissuto dalle vittime abbiano reso più urgente la sua ricerca di aiuto.
Trincia si rende conto che il suo lavoro, pur essendo anche una forma di giustizia per gli altri, lo coinvolge in un modo profondo e a volte difficile. Ogni storia che narra diventa una connessione intima con il dolore e, di conseguenza, un viaggio nella propria vulnerabilità. «Raccogliere queste testimonianze è come entrare in una centrale radioattiva del dolore», spiega, chiarendo come quelle esperienze possano lasciare un segno indelebile nella sua psiche. Mentre il suo talento narrrativo è il risultato di un profondo rispetto per le vittime e delle loro storie, comporta anche una certa condanna personale, poiché non si può semplicemente restare indifferenti di fronte a tanta sofferenza.
La nascita del podcast su Rigopiano
Il nuovo progetto di Pablo Trincia, che si concretizza nel podcast intitolato E poi il silenzio, riguarda una delle tragedie più devastanti del recente passato italiano: l’incidente dell’hotel Rigopiano, avvenuto il 18 gennaio 2017. Il podcast, composto da otto puntate, è un’inchiesta-reportage originale prodotta da Sky Italia e Sky TG24, con la collaborazione di Chora Media. «Credo che sarà una storia di impatto emotivo devastante, rievocando le vittime ingoiate in quell’albergo», afferma il giornalista, anticipando la drammaticità dei contenuti.
Trincia non si limita a raccontare i fatti, ma esplora dettagliatamente le testimonianze di chi era presente quel giorno, offrendo una narrazione intensiva e coinvolgente. «Per realizzarlo abbiamo letto, ascoltato e intervistato chiunque fosse legato ai fatti», spiega, sottolineando l’accuratezza e la profondità dell’approccio che caratterizza il suo lavoro. La narrazione non si concentra solo sulle conseguenze della tragedia, ma cerca di chiarire perché così tanti indizi di pericolo non siano stati colti in tempo: «C’era già stato anche un episodio simile due anni prima che doveva suonare come un sinistro avvertimento», riferendosi a un allerta che era stata ignorata.
La struttura del podcast riprende le modalità narrative già consolidate con altri lavori di Trincia, come Elisa Claps. Inoltre, una docuserie di cinque puntate su Sky TG24 e Sky Documentaries accompagnerà il rilascio del podcast, portando il racconto a un pubblico ancora più ampio. «Una storia sconcertante», conclude, suggerendo che il suo obiettivo è far sentire la voce di chi è stato colpito dalla tragedia, stimolando riflessioni profonde e critiche su una gestione della crisi inadeguata. La questione centrale si sposta così dalla semplice cronaca all’analisi delle responsabilità, ritenendo che «Nessuno ha fatto nulla per evitare il dramma».
Il segreto del successo di Pablo Trincia
Il segreto del successo di Pablo Trincia risiede in un mix ben calibrato di curiosità, empatia e una narrazione coinvolgente. «La curiosità è fondamentale», afferma, e con essa riesce a esplorare le profondità delle esperienze umane, rendendo ogni storia non solo un fatto di cronaca, ma un’esperienza emotiva che colpisce il lettore e l’ascoltatore. Questo approccio lo distingue in un panorama saturato di narrazioni eomaschile.
La sua capacità di entrare in contatto con le vittime e le loro famiglie, di respectare il loro dolore e la loro dignità, è un altro elemento cruciale nel suo lavoro. «Il rispetto per le vittime è essenziale; devi tenere a mente la loro umanità», commenta Trincia. Questo rispetto non è solo una questione etica, ma diventa parte integrante del suo racconto. Lo storytelling, per lui, è più di una semplice tecnica narrativa; è «una forma di seduzione». Lui stesso dice di voler «tenerti incollato» alla storia, come in un film che ti affascina e ti tiene col fiato sospeso, creando un legame empatico tra narratore e pubblico.
Trincia riflette anche sull’elemento di morbosità che si può riscontrare in alcune storie di true crime. «C’è sicuramente una quota di morbosità, inutile negarlo», ammette. Tuttavia, crede che esista qualcosa di più profondo: la necessità per le persone di affrontare il dolore altrui per riconoscere e apprezzare la propria realtà. «Affrontando il dolore degli altri, rivalutiamo anche quello che diamo spesso per scontato», spiega, suggerendo che la vera forza delle sue storie risieda nella capacità di far riflettere e provare empatia.
L’abilità di Trincia di connettersi a racconti che toccano le corde più intime dell’esistenza umana è ciò che lo rende un narratore di successo. Le sue storie sono un invito a non restare indifferenti, a essere parte attiva nella ricerca di giustizia e verità, trascendendo il semplice piacere della narrazione per diventare un’appassionante riflessione sui limiti e la resilienza della condizione umana.