Nuovi film in uscita nelle sale cinematografiche: Kirsten Dunst è Upside Down
Upside Down, progetto fantascientifico franco-canadese con Kirsten Dunst e Jim Sturgess, raggiunge oggi le sale italiane, a un semestre esatto di distanza da un inusuale rilascio internazionale che ha visto fra le sue prime tappe il sud-est asiatico e alcuni Paesi dell’ex-area sovietica, Russia in testa.
Niente di atipico, si direbbe, e, come di consueto, ci si lancerebbe in una accorata, legittima querimonia sui sempre più inconcepibili ritardi della distribuzione nostrana, colpevole di essersi fatta sorpassare ancora non solo dal resto del Primo Mondo, ma anche dalle zone più periferiche della cinematografia globale.
Per una indecifrabile serie di circostanze, l’Italia è invece il primo Paese occidentale ad accogliere la seconda fatica del cineasta argentino Juan Solanas, in netto anticipo persino sugli Stati Uniti (uscita prevista: metà marzo) e, in particolare, sulla Francia, patria produttiva del film, dove arriverà soltanto a inizio maggio.
Per una volta, ci sarebbe da essere soddisfatti e da rallegrarsi per un simile, benaugurante precedente.
Purtroppo, non è questo il caso.
Upside Down, infatti, sembra possedere le caratteristiche base del fondo di magazzino, dello scarto di produzione, dell’operato del cui scarso valore ci si è accorti troppo tardi e che, alla fine, quasi ci si vergogna a riconoscere come proprio.
Tolto dalle mani dei co-finanziatori statunitensi per insanabili divergenze creative, la pellicola ha potuto contare sul più modesto appoggio della Transfilm di Montréal, che ne ha ridimensionato notevolmente il budget e ne ha smorzato l’impatto commerciale, lasciando il prodotto a prendere polvere per più di due anni prima dell’uscita in sala e decidendosi a esportarlo in una manciata di stati di bocca buona – e qui entriamo in gioco noi – come cartine tornasole di un’eventuale promozione in grande stile.
Vana illusione.
Promosso al circuito mainstream dopo l’esordio-rivelazione Nordeste, presentato al Festival di Cannes nel 2005, Solanas tenta di coniugare la natura sociale della sua poetica – con tutta probabilità ereditata dalle lezioni del padre Fernando (L’ora dei forni), nome di riferimento del documentarismo militante sudamericano – alle esigenze del cinema commerciale di genere, dando vita ad un ibrido che dice pochissimo tanto come film d’autore, quanto come opera di puro intrattenimento.
Lo spunto iniziale, seppur con grossi debiti verso i canoni della fantascienza distopica, soprattutto il celebre romanzo di Ursula K. Le Guin I reietti dell’altro pianeta, offriva numerosi punti di interesse: in una dimensione alternativa, due mondi gemelli e adiacenti, posti uno sopra l’altro, ospitano rispettivamente una società florida e sovrasviluppata e una periferia suburbana schiavizzata dagli abusi della prima. Alle ferree norme che determinano il rapporto fra i due popoli, si uniscono leggi fisiche di tale importanza da venire puntigliosamente riassunte nell’introduzione: qualsiasi persona (od oggetto) è sottoposta alla gravità del proprio corpo celeste d’origine, ma se controbilanciata – previa possesso o consumo – da una dose sufficiente di antimateria può invece subire attrazione da parte dell’altro pianeta, salvo rischiare l’autocombustione poco dopo il contatto con l’altra atmosfera.
Il problema sostanziale di Upside down è reso evidentissimo sin dai cinque minuti iniziali: non c’è nulla di suggerito, di mostrato, di lasciato intendere nel linguaggio del film, ma qualsiasi suo aspetto viene con dovizia di particolari spiegato, giustificato e sottolineato, azzerando il fascino potenziale di una realtà parallela, per una volta, inedita.
Tutto è ridotto a un espediente retorico, dalla sentenziosa, lagnosa e ridondante voce fuori campo alla caratterizzazione dei personaggi (in alto, sono quasi tutti ricchi patrizi WASP, mentre in basso regna il melting pot a maggioranza afro-latina), dalla piattezza dei comprimari, a partire da uno sprecatissimo, triste Timothy Spall (dov’è finito il magnifico attore feticcio di Mike Leigh?), schiacciati nella loro bidimensionalità e declassati a meri plot devices, alla inconsistenza della vicenda principale, che piazza moltissima carne al fuoco (lo scontro tra classi, lo sfruttamento del sud del mondo, il crudele e massificato processo di industrializzazione globale) e, allo stesso tempo, ne cuoce pochissima per concentrarsi su ciò che è effettivamente il motore degli eventi.
Sì, perché Upside Down, più che una futuribile parabola post-orwelliana, è preminentemente, essenzialmente e banalmente l’ennesima, logora storia d’amore proibito a metà fra Romeo e Giulietta e Titanic (neanche a dirlo, lui sta sotto, lei sopra), con tutte le esasperazioni ultra-romantiche della situazione, peraltro rese indigeste e poco credibili dalla totale assenza di alchimia fra i due innamorati e da un insieme di sovrastrutture semiotiche risibili: passi un protagonista maschile, primo “uomo nuovo” e generatore dell’unione fra i due mondi, eloquentemente chiamato Adam, ma che lei risponda con sprezzo del ridicolo al nome di Eden – e nella versione italiana, ancora peggio, a quello di Eve – è l’ulteriore segno di un didascalismo parossistico che prosegue indisturbato fino ai (lunghissimi) titoli di coda.
Sarà pur vero, come recita la frase di lancio, che “l’amore sfida la forza di gravità”, ma quando si arriva a sfidare e a violare con disinvoltura le regole imposte sin dal prologo, si mette in discussione l’onestà stessa del discorso: un semplice scambio di fluidi corporei o l’assunzione di cibo non locale, che per i due amanti restano pur sempre reciproca antimateria, non basterebbero a provocare la combustione? E perché questa avviene in un lasso di tempo assolutamente arbitrario? Adam, stando capovolto durante ogni visita ad Eden, non ha difficoltà a mantenere per ore l’eccessiva pressione sanguigna al cervello? E’ mai possibile che la più potente e presidiata multinazionale della galassia, luogo di lavoro di Adam ed Eden e unico punto di convergenza fra le due civiltà, oltre a dimostrarsi misteriosamente esente dal pericolo di collisione fra atmosfera e antimateria, non possa permettersi telecamere a circuito chiuso per tenere d’occhio i suoi impiegati?
In un apparato narrativo che decide di fondarsi su criteri tutti suoi, questi non sono dettagli o trascurabili buchi di sceneggiatura, ma pesanti contravvenzioni a un intreccio sorretto su una sospensione dell’incredulità già fragilissima e mancanze che trasformano l’ingenuità dell’assunto in purissima approssimazione, se non in stupidità.
La confezione di certo non aiuta: considerato il tono declamatorio e ieratico della pellicola, le musiche ampollose ed enfatiche di Benoit Charest – che preferivamo ricordare come brillante compositore della deliziosa colonna sonora di Appuntamento a Belleville – non tacciono mai e contrappuntano pesantemente anche le sequenze di raccordo nella speranza di suscitare qualche sussulto; la fotografia, nauseantemente virata in blu e punteggiata da rifrazioni di luce a tratti accecanti, rende faticosissima la visione e, più che limitarsi ad illuminare e a illustrare la stuzzicante paradossalità del contesto, costringe lo spettatore ad un insistito senso di meraviglia dove di immaginifico c’è poco e niente.
Insomma, Upside Down, che culmina in una melassosa conclusione su cui si preferisce tacere per non rovinare l’ipotetica sorpresa, si risolve in un autentico disastro, inefficace sia come disimpegnata, appassionante fantasia sentimentale, sia come avvincente giocattolone avvenieristico con cui rifarsi la vista, sia come riflessione allegorica sul presente, rovinando un soggetto sulla carta ricchissimo e abbandonandosi alla reiterazione degli stereotipi più vieti.
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