La frode, la recensione del nuovo film con Richard Gere
Quando si afferma che quello dell’attore sia il mestiere più bello del mondo non si va molto distanti dal vero, specialmente se ci si riferisce a Richard Gere, il quale, nonostante i 64 anni e i capelli grigi, mantiene intatto l’appeal dei suoi tempi migliori. Saranno l’alimentazione vegetariana, le filosofie orientali o la causa tibetana, fatto sta che il protagonista di Ufficiale e gentiluomo e Pretty Woman non pare proprio l’immagine dello stress. Eppure, la pressione incredibile cui è sottoposto il personaggio che interpreta in Arbitrage (La frode in italiano), potrebbe indurci a seri dubbi…
Difatti, Robert Miller (Gere) è un prestigioso magnate di New York costretto a dismettere il suo impero commerciale per sopperire alle frodi perpetrate per anni. La Old Hill, il settore critico della compagnia, accusa una falla di 400 milioni di dollari, ma lo spregiudicato affarista ha coperto il disavanzo attraverso una serie di operazioni ai limiti della legalità. Sua figlia Brooke (Brit Marling), direttore finanziario ed erede designata della società, sta per scoprire il modus operandi del padre, prima che questi riesca a fronteggiare il crack con la vendita a un’importante banca.
L’impeccabile finanziere ha compiuto i sessant’anni, e dopo la rituale riunione di famiglia, le solite scuse di prammatica sciorinate a Ellen (Susan Sarandon, nuovamente nei panni della sua consorte dopo Shall we dance?), fugge dall’incantevole Julie (Laetitia Casta), un’artista francese, lunatica e imprevedibile, che gli ha preparato per l’occasione un’altra dolce sorpresa. Il fascinoso Miller pare barcamenarsi piuttosto egregiamente nella concitazione di un’esistenza condotta all’insegna del potere, del sesso e del denaro, almeno fino a quando un colpo di sonno gli causerà l’incidente d’auto che provocherà la morte dell’amante.
Non ci voleva proprio. Soprattutto non adesso. Miller riporta alcuni danni fisici, seppur piuttosto limitati. Solo il giovane di colore, Jimmy Grant (Nate Parker), figlio del suo vecchio autista personale, può aiutarlo a risolvere quest’altro grosso guaio. Ma potrebbe non bastare, visto che un coriaceo ispettore di polizia, Michael Bryer (Tim Roth) è disposto a tutto, pur di incastrare il sempre meno disinvolto affarista. Come se non bastasse, la pressione degli investitori e quella dei familiari si sta facendo insostenibile. Ce la farà Robert Miller a uscirne fuori? È quanto scopriranno gli spettatori che a partire dal 14 marzo potranno ammirare al cinema questo serrato thriller finanziario che presenta una galleria di personaggi cinici e spietati, i quali hanno anteposto il culto del denaro a ogni sentimento e principio morale.
Regista e sceneggiatore de La frode, Nicholas Jarecki è assai abile nel mostrarci il ritratto della società alto borghese, opulenta e ipocrita, magari anche liberal, ma che continua a infischiarsene delle regole, a nutrirsi del falso in bilancio e della corruzione, della bolla speculativa e immobiliare, operando grandi spostamenti di capitali verso i paradisi fiscali e attraverso trame borsistiche spregiudicate, nonostante gli effetti nefasti della crisi mondiale. Molti potenti finanzieri sono finiti davanti ai riflettori, alcuni nelle prigioni federali; altri hanno però continuato a sbranarsi, come gli squali che attaccano i propri simili più deboli.
In questa dorata Babele del terzo millennio, in cui i cattivi appaiono belli e carismatici, raffinati ed eleganti, non ci si stupisce affatto di un sistema giudiziario troppo favorevole ai ricchi nel quale perfino la polizia fa il gioco sporco “taroccando” gli indizi. Neanche la famiglia, disegnata come un vuoto e inutile contenitore, potrà più fornire la tradizionale scialuppa di salvataggio. Il film, che ben si orienta nell’esplorazione del cancro del capitalismo, riesce tuttavia a raccontare efficacemente anche il dramma di un individuo, al quale la solitudine pare la sola via di fuga, l’unica vera alternativa all’ingannevolezza del successo. La frode si chiude, dunque, in maniera esemplare, con una sequenza di grande forza allegorica che risuona come una profezia: un applauso fragoroso seppellirà per sempre quest’ambigua, feroce e decadente aristocrazia del denaro.