Il figlio dell’altra, la recensione del film di Lorraine Lévy con Emmanuelle Devos
Può accadere che nel reparto di ostetricia di un grande ospedale vengano scambiate due culle, ed i rispettivi occupanti vengano affidati l’uno alla madre dell’altro? Fortunatamente si tratta di un evento raro, che in genere quando si verifica viene chiarito e risolto rapidamente. Il lieto fino, però, non è affatto così scontato se lo scambio ha luogo nell’ospedale di Haifa durante un allarme per il lancio di razzi da parte palestinese, in occasione di una delle purtroppo frequenti crisi arabo-israeliane…
Lorraine Lévy, regista francese di origini ebraiche, narra dell’impatto di un simile “disguido” sulle vite di due famiglie che più diverse non potrebbero essere: una, israeliana, conduce un’esistenza agiata nella moderna e vibrante Tel Aviv; l’altra, palestinese, deve fare i conti tutti i giorni con la realtà dell’occupazione della loro terra da parte di Israele. Il caso ha fatto in modo che i due rampolli vivessero l’uno la vita dell’altro: uno scambio beffardo, che quando viene svelato innesca dinamiche imprevedibili sia nei diretti interessati che nei loro familiari.
Tuttavia, passato lo choc iniziale, a poco a poco il velo di diffidenza tra i protagonisti si dissolve: i due ragazzi, incuriositi, si avvicinano fino a diventare amici e a comprendere che la differenza tra loro non è poi così irriducibile come si potrebbe pensare: in una delle scene simbolicamente più significative, Joseph (Jules Sitruk), nato arabo ma ritrovatosi israeliano, e Yacine (Mehdi Dehbi), dal destino inverso, sono l’uno accanto all’altro davanti ad uno specchio. Yacine commenta: «Ecco Isacco e Ismaele, i due figli di Abramo».
Ma sono le madri (Orith, interpretata da Emmanuelle Devos, una delle maggiori interpreti francesi, e Leïla, l’intensa Areen Omari) le prime ad avvicinarsi, a capire – o meglio, a sentire – che la situazione richiede uno sforzo di immaginazione, uno slancio di generosità, un allargamento dei confini familiari anziché la loro contrazione, accettando di avere non un solo figlio ciascuna, ma due. E riuscendo a coinvolgere i riluttanti mariti (gli ottimi Pascal Elbé e Khalifa Natour), bravissime persone ma, come molti loro connazionali, prigionieri degli schemi mentali frutto di un perenne conflitto: nessuno di loro, all’inizio, è in grado di accogliere la sconvolgente novità di avere come figlio un potenziale nemico.
Gran Premio della Giuria e Premio per la miglior regia al 25° Festival di Tokyo, Il figlio dell’altra si immerge senza falsi pudori nella geografia del conflitto israelo-palestinese, muovendosi tra scenari divisi in due – gli edifici diroccati con vista sul mare delle città cisgiordane – e paesaggi contrapposti – da un lato la ricca Tel Aviv, dall’altro i territori occupati circondati dall’odioso Muro. Solo la giovinezza, la voglia di vivere, la musica (quasi tutti i protagonisti suonano uno strumento), sembra dirci la regista con l’aiuto dei suoi mentori Amos Oz e Yasmina Khadra, possono essere le chiavi per aprire l’enorme carcere che va da Aqaba a Gaza e da Hebron a Gerusalemme, dove a essere prigioniera è l’umanità tanto delle vittime quanto dei carnefici.