I Croods, la recensione dell’ultimo nato di casa Dreamworks diretto da Kirk DeMicco e Chris Sanders. Nell’età della pietra non si è mai riso tanto
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Grandi aspettative, un’abbondante dose di hype, frotte di mamme, papà e bambini accorsi in sala e, successivamente, nei più forniti negozi di giocattoli, incassi esorbitanti e, in ultima analisi, poca, pochissima sostanza: per il mondo dell’animazione il 2012 non è stato l’annus mirabilis tanto annunciato, ma una stagione di transizione che ha visto i propri progetti più ambiziosi (Brave e Ralph Spaccatutto) pesantemente ridimensionati a capitoli interlocutori di una produzione altrimenti maiuscola, i tassativi, puntualissimi appuntamenti seriali (Madagascar 3 e L’era glaciale 4, non a caso – e di gran lunga – i titoli più redditizi) buoni solo a tenere in vinta franchise che ormai col cinema hanno poco a che fare e un pugno di cellule impazzite tutte curiosamente a sfondo macabro (Paranorman, Frankenweenie e La bottega dei suicidi) interessanti nelle intenzioni, ma assai modesti nei risultati.
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L’unico sussulto, l’unico autentico momento di equilibrio si è avuto con la piacevole sorpresa Le 5 leggende, immaginifica e anomala creatura di casa Dreamworks, notevole esperimento a metà fra fiaba popolare e film d’autore (complice un produttore come Guillermo del Toro) capace di confermare, dopo l’ottimo Dragon Trainer, lo stato di grazia dell’equipe di Jeffrey Katzenberg.
Pur con l’irrilevante eccezione del maltrattatissimo e quasi invisibile Escape from Planet Earth della minuscola Rainmaker Entertainment, sono proprio gli iperattivi studi di Glendale a sguinzagliare per le sale il primo cartoon del 2013, a circa un mese di distanza dalla sua presentazione al Festival di Berlino: dopo otto anni di stallo produttivo che hanno visto la britannica Aardman Animations (Wallace & Gromit) estromessa dal progetto e la sua peculiare claymation sostituita dalla più tradizionale CGI, esce in contemporanea pressoché mondiale l’attesissimo I Croods, che vede tornare in cabina di regia quel Chris Sanders che, con le trascinanti avventure del giovane Hiccup e della sua Furia Buia, aveva concretizzato quel salto di qualità in grado di avvicinare pericolosamente il canone Dreamworks ai livelli di eccellenza dell’intoccabile Pixar.
Sarebbe difficile non notare i numerosi punti in comune con il capolavoro del 2010: laddove un vichingo adolescente, scontrandosi con l’autorità genitoriale, scopre nelle proprie nemesi alate un fedele alleato e una chiave per far progredire una civiltà barbara e retrograda, qui è una ragazza delle caverne, a sua volta ostacolata dalle tendenze conservatrici del padre, a smascherare le superstizioni della collettività trasformando un contesto ostile nel migliore dei mondi possibili.
In un’era di sommovimenti geologici ed atmosferici, l’irrequieta Eep mal sopporta le abitudini eccessivamente stanziali e reclusive del proprio parentado e, noncurante dei pericoli circostanti, abbraccia lo stile di vita avvenieristico del coetaneo Guy, solitario Prometeo del Paleolitico che si ritroverà suo malgrado compagno di viaggio della famiglia Crood, alla ricerca di un posto sicuro nel quale insediarsi, lontano dall’oscurità della grotta.
I Croods, programmaticamente, si muove tra modelli disneyiani collaudatissimi e miti platonici, tra parentesi slapstick e conflitti generazionali, tra facezia ed emancipazione, tra trovate pirotecniche à la Warner Bros. (lo spassoso inseguimento iniziale) e squarci di commozione (il congedo di Grug), tra elogi dell’unità familiare e palpiti progressisti, dipingendo la picaresca presa di coscienza di una comunità alla lenta ricerca del futuro e dell’utopia, di un nuovo mondo nel quale vivere e non più sopravvivere, attraverso un percorso dove meraviglia e paura si avvicinano fino a coincidere: merito di una cura per lo sfondo e per gli ambienti vicinissima ai prodigi di Avatar, lo stupore dei Croods è in fin dei conti anche il nostro, e ci si addentra a mano a mano in un crescente senso di stupefazione, fuori dalla monocromaticità della roccia e verso un sistema di forme e di colori che riempie gli occhi, a partire dall’indimenticabile primo approccio col fuoco fra mille tizzoni danzanti fino alla rivelazione del firmamento, istantanee nelle quali risplendono le alchimie visive di Roger Deakins, fresco di Skyfall e ormai consulente di vaglia per la Dreamworks.
Certo, I Croods è tutto questo, forse fin troppo, e si avverte spesso la sensazione di dover moderare i toni e di accontentare tutti, come a ricordare che, dopotutto, sempre di un prodotto per famiglie si tratta: il dramma è costantemente stemperato e mai presenza credibile, il clima resta fondamentalmente conciliante e attento a non prendere posizioni nette, ma soprattutto manca quell’elogio del sacrificio che rendeva Dragon Trainer e Le 5 leggende due opere mature e adulte, così pure le intuizioni più geniali, come l’idea straziante dell’arte rupestre come invenzione per scongiurare la malinconia, finiscono per essere travolte dal bisogno di buttare tutto sul ridere e di arrivare sani e salvi all’obbligatorio happy end.
Si nota lo sforzo di evolvere un linguaggio ammiccante dove il riferimento pop e il citazionismo erano all’ordine del giorno – si pensi al sopravvalutato Shrek e ai suoi micidiali sequel – e si apprezza il ricorso ad un umorismo genuino e intelligente che, grazie al cielo, riduce al minimo indispensabile il trito espediente dell’anacronismo alla Flinstones, però si rimpiange quella voglia di rischiare e di mettersi in discussione che aveva probabilmente spaventato gli spettatori meno vaccinati.
Preso per ciò che è, tuttavia, I Croods rimane uno spettacolo di innegabile divertimento, magari un po’ troppo rispettoso delle convenzioni Dreamworks (la voce narrante in apertura e in chiusura viene dritta da Dragon Trainer, il desiderio di evasione è lo stesso di Bee Movie), ma, grazie anche a caratterizzazioni davvero gustose, a cominciare da un’eroina verace e giunonica che azzera miseramente l’insistito proto-femminismo d’accatto della coeva principessa Merida di Brave, e a una capacità considerevole di oscillare fra i vari registri, oltre all’ovvia perfezione tecnica, si lascia la sala con la rinnovata speranza che – perniciosa sfilza di sequel permettendo – il cammino di Katzenberg e soci possa finalmente trovare una cifra originale, coerente e definitivamente affrancata dagli scomodi paralleli con i rivali della Pixar.
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