Le comparse di Cinema e Fiction tra Kafka e Boris
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SONO COMPARSA A ME STESSO! (L’Oscar to)
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Si parla – soprattutto in questi giorni di statuette e belle statuine – del cinema dei grandi registi, del fascino delle attrici, del carisma degli attori, della sapienza dei grandi artigiani che rendono possibile la caleidoscopica opera che è un film. Ma esiste un figura nel cinema e nella fiction, di cui nessuno noterebbe l’assenza, se improvvisamente venisse a mancare. Se ne venisse a mancare una sola…ma se mancassero tutte? La comparsa. I film diverrebbero esangui scene teatrali con pochi personaggi che si muovono come alghe metafisiche in un mondo iperuranio. La verità delle comparse, anche nel corpo, nelle movenze, nelle fisiognomiche, riporta il film ad un realismo, ad una consistenza carnale, talvolta basso corporea che, altrimenti, lo relegherebbe ad un sogno per pochi eletti. Ed io ho voluto, una volta nella vita, vivere l’esperienza della comparsa, non del conprimario ma del “con-secondario”. Sentirmi fondo, sfondale, scenografia umana in una vita finta, cinematografica, forse per esorcizzare il malessere dell’essere comparsa, tutti noi, spesso anche nella vita reale. Chiaramente ho deciso di farlo non nel nobile cinema ma in una delle tante fiction televisive.
Primo giorno di lavoro: avvertito la sera prima, circa alle 24, mi viene intimato da un personaggio dalla vocalità simile a quella di Mario Brega, di farmi trovare ad un ospedale nell’esotico e lontanissimo quartiere dell’Eur, alle ore 7 e 30 antimeridiane, con una cravatta ed un pigiama perchè avrei dovuto fare o il dottore o il malato. Data l’alzataccia, nel lungo tragitto per una Roma semideserta come quella in cui Sordi ha girato Nestore, l’ultima corsa, mi fermo ad ogni bar aperto a prendere un cappuccino ed un cornetto alla crema. Dieta ripetuta, disastrosa poi, durante le riprese, dato che prima di uscire non ero riuscito a espletare la funzione fisiologica dell’atto grande.
Arrivato all’ospedale, posso finalmente guardare in faccia, il mio capocomparsa, il capurione, la voce in falso camorrista, che avevo sentito la sera prima. In effetti ha anche la fisicità di Brega e questo mi fa desistere da qualsiasi tipo di contestazione.
In effetti, il primo abito che mi viene fatto provare, è quello del carabiniere nel quale mi sento particolarmente ridicolo. Forse è sempre meglio del malato, ma di certo meno prestigioso di quello del dottore. Fortunatamente dopo un lungo minuetto di cambi e scambi d’abito tra tutte le comparse, alla fine indosso il mio ambito camice da cardiologo, con una bella cravatta ed uno strumento per auscultare appoggiato sul collo. Detto strumento, per tutta la giornata è stato definito dalle costumiste e dal regista in vari modi: stereoscopio, stettoscopio, stettoscoppio, ascultatore, cuffietta di ferro. Quando l’ho visto sapevo come si chiamava. Ora non più.
Chi sono le altre comparse, nella vita privata? Quelli che si dividevano nelle categorie inflessibili di carabinieri, dottori, malati e passanti, in privato erano sostanzialmente studenti universitari a caccia di qualche lira per la benzina o per andare con i trans; falliti psicopatici e vecchi mestieranti di questo non lavoro che, appena si vedono la mattina sul set, iniziano a rimembrare tutti i film girati, dagli anni ‘50. Fare la comparsa in modo metodico può far guadagnare anche discrete cifrette, calcolando che la paghetta giornaliera e di circa 70 euro al giorno. Giornata di 10 ore passata nel più sibaritico ozio, dove di contro a una o due ore di girato, si passa il resto del tempo nelle attività più svariate, in attesa della prossima chiamata per le riprese. Gli universitari, solitamente, si portano qualche libro per studiare o la Repubblica mentre i vecchi mestieranti optano per quotidiani più settoriali come Lazialità se uomini, oppure interminabili lavori a maglia se donne. Questo a meno che non intervenga il fattore X.
Ovvero una comparsante particolarmente carina, come avvenne il mio primo giorno di lavoro. Era una ragazza deliziosa, anche se aveva il volto deturpato da un acne non più giovanile. Subito una predatoria comparsa maschio, sui 40 anni iniziò a marcarla a zona, le zone basse. Difatti quest’uomo – autodichiaratosi bel ragazzo (a parte l’età non più da pischelletto, assomigliava realmente a Nino D’Angelo), autodichiaratosi nonostante il fisico ai limiti della focomelìa ex guardia del corpo di Almirante, possessore di un illegale casco da baseball che utilizzava per andare in motorino, fascista conclamato – tentò di far breccia in tutti i modi nel cuore (?) della fanciulla con battute “sentimentali e femministe”.
Il soggetto venne ben presto isolato dal capurione che ci raccontò, facendosi volutamente ascoltare dal bel moretto, che nessuno lo poteva più sopportare, con i suoi modi e con la sua logorrea, che aveva fatto due palle a tutto l’ambiente.
Eliminata la concorrenza dell’almirantiano, ebbi campo libero per tutto il giorno, finchè prima di andare via, la bella mi disse che aspettava il ragazzo per venirla a prendere.
Grande delusione, grande fatica sprecata, grande illusione, un’altro secondo posto ai rigori per l’Italia. Eppure si era creato un bel feeling, soprattutto durante la prima scena, girata nei corridoi reali dell’ospedale. Sullo sfondo lei era l’infermiera che mi faceva firmare dei documenti, a me suo superiore, suo dottore, suo dominatore, suo maschio preferito. Ed effettivamente quelli erano i rapporti, anche se solo per i pochi minuti di girato. Questo è il cinema, anche quello più minimale e realistico. Una fuga dalla realtà. Nelle tese fasi di pre-ciak della scena, ripetuta tre o quattro volte, tutto partiva tra noi da uno sguardo fisso negli occhi. Chissà chi era quella ragazza, con chi stava, quali i suoi interessi, mah…in quegli attimi però era netta e evidente la dinamica dei rapporti tra di noi. Io immaginavo di essere un dottore un po’ alla Clooney, un po’ alla Carotenuto, che alla fine del turno notturno, possedeva passionalmente la seducente subordinata, nell’eccitante atmosfera di etile e flebo, su di una barella, buttando giù dal letto, qualche moribondo lasciato in corsia. Questo è il cinema, anche se poi finisce.
Durante la scena, spesso alcuni familiari dei malati veri ci hanni chiesto dove era il tale dottore o il tale ricoverato. E noi, a giurare che non eravamo veri, che eravamo personale cinematografico, che si stava girando, che that’s cinema.
Intanto il reduce dell’MSI, girava come malato su una sedia a rotelle, roso dalla gelosia e dalla rabbia dell’isolamento sociale. Finita la scena è voluto rimanere sulla sua sedia, tra i malati veri, facendo finta di fare l’offeso.
Ora di pranzo: arriva il cosidetto cestino, una vaschetta piena di cibi sparsi, di indefinita origine e datazione. C’è il cestino bianco e quello rosso, forse in omaggio alle passate divisioni politiche. C’era stata anche una lotizzazione del cestino? Non riesco a capire cosa mangio ma la fame mi porta ad ingerire una acquetta rosastra in cui galleggiano dei maccheroncini.
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Seconda scena: non c’è più la mia benamata metà. Qui però ho un ruolo di maggiore responsabilità a cui non ero preparato: il primo piano. In effetti io ed un altro cardiologo dobbiamo leggere preoccupati un tracciato, davanti ad un moribondo al suo terzo infarto.
Al termine della ripresa ravvicinata, dico anche la battuta: “provvedo io ad avvertire i parenti”!
La grande interpretazione mi vale il riconoscimento di zia Isa mentre zia Pina dice anche lei di avermi visto, ma ero molto ingrassato e stavo male con quella coppoletta verde. Chissà cosa ha visto.
Alla fine della giornata, dopo ore e ore di freddo e noia attendiamo il ragioniere che ci deve pagare che arriva con tre ore di ritardo. Tutto bene. Come prima giornata non ci possiamo lamentare. 5 secondi di gloria, una quasi conquista galante e 70 euro.
Seconda giornata: il dramma.
Si tratta sempre della stessa fiction. E’ la fine di Giugno ed a Roma ha fatto un anticipo di caldo agostano con punte di 40 gradi. Fa caldissimo ma in compenso la chiamata e per le 14 e 30 e l’abbigliamento minacciato e quello invernale!
Prove vestiti per la prima scena, dove intepreterò l’amico del Giaguaro. Mi vogliono vestire in abiti civili, anche se incivili per la temperatura: pantalone di vellutone, giacca di lana che pizzica e cappello a falde di tessuto che sembra lava. Chi devo intepretare? Mi dicono che devo fare il tipo losco che parlotta sullo sfondo col Giaguaro, gestore di un ambiguo albergo che, poi, verrà arrestato sempre da me, questa volta nel ruolo del carabiniere. Nello stesso episodio, coprirò due ruoli diversi, antitetici, come sarà possibile? Provo a chiedere al solito Mario Brega che mi risponde “anti..chè? Nun te preoccupà, nun te se riconosce.”
Come si parlotta in modo losco? Io e il Giaguaro intavoliamo realmente un dialogo-scontro di malavitosi ed alla terza prova sono diventato un camorrista che vuole incendiargli la moglie, distruggergli casa e mettergli una bomba nel negozio. La discussione in un romanesco alla Tomas Milian, pieno di “stronzo” “cazzo” e “porca mignotta” viene presto interrotto dal fonico che ci dice che, anche se siamo di sfondo, si sente quello che diciamo e, quindi, ci invita ad un maggior birignao. Subito decliniamo su poco credibili ma non censurati “canaglietta, ti brucio la macchina”, “briccone, dammi altri due giorni per pagare la sommetta”.
Finita la scena col Giaguaro, mandano me ed un altro ragazzo a vestirci da carabinieri. Se prima mi ero preparato nel camper degli attori con aria condizionata, ora l’arrivo degli attori veri ci aveva fatto degradare ad un camerino improvvisato nel tir dei vestiti. Ci spogliamo, rimaniamo in mutande e ben presto ci accorgiamo che il camion, aperto, era una ottima vista per tutti i passanti, a piedi o in macchina. Fa troppo caldo, però, per fregarcene, perchè il nuovo look è caratterizzato da cravatta, giaccone invernale di flanella, fondina e pistola, cappello piccolo ben pressato sulle tempie a chiudere la circolazione sanguigna. E’ della nostra finta benemerita anche una ragazza che sembra una afflitta massaia dalla vita distrutta dal destino, costretta a ripiegare su questo lavoro per mantenere i figli che vanno a scuola. In realtà è una attrice di teatro sperimentale, teatro in cui puoi sperimentare che non si guadagna nulla. L’aspetto depresso era dato solo dal caldo. E forse dal teatro sperimentale.
La costumista scopre che ho una macchia sul pantalone da carabiniere, proprio sul sedere “non ti preoccupare, te la levo subito…” ed inizia a strofinarmi un non meglio precisato liquido che subito sento che mi procura ustioni di ottavo grado sulla pelle “…oh scusa, era trielina pura, che fa, ti brucia…aspetta che la diluisco un po’…”. Superato l’inconveniente, giriamo la scena dell’arresto del Giaguaro, guidati da un rivolo continuo di sudore che ci scende dai capelli, ridotti ormai piuttosto ad un Mocho Vileda. Provo a consolare i miei compagni di sventura dicendo che, come i Tuareg coperti di lana nel Shaara, ora che sono tutto chiuso dal giaccone non sento più neanche tanto caldo. Mi mandano affanculo, forse anche giustamente.
Finite le riprese, non dicono quali saranno le prossime e ci lasciano al bel calduccio dei nostri indumenti da “Benemerita”. Finchè usciamo dall’albergo dove c’era il set, e veniamo raggiunti da una vera pattuglia di carabinieri che vuole fare una multa alla produzione perchè è reato andare in giro, spacciandosi per carabinieri veri. Improvvisamente solerti, i capurioni ci fanno subito spogliare in mezzo al traffico, con un po’ di pietà per la ragazza che stava rischiando un imprevisto spogliarello. Molta attrici dicono che accetterebbero ruoli osè ma, magari, in un film di Antonioni, non per Incantesimo.
La giornata termina con una vecchietta che passa vicino al camion dei vestiti e ci chiede se sono in vendita, pensando che il nostro cinema fosse un mercatino. Realtà, finzione, illusione? Anche questo è cinema.
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