Artisti finti su Spotify: come influenzano le playlist e riducono i diritti d’autore
Come Spotify utilizza artisti “finti” per le sue playlist
Nel 2016, una serie di inchieste ha rivelato la presenza di brani sconosciuti all’interno di alcune delle playlist più popolari di Spotify, evidenziando un fenomeno soprattutto nei generi come il jazz e la musica ambient. La rivista Music Business Worldwide ha riportato come Spotify stesse incoraggiando i produttori a creare tracce strumentali, prive di voci, destinate a riempire queste playlist. Di conseguenza, l’azienda è stata accusata di creare contenuti suoi per evitare di corrispondere diritti d’autore a musicisti autentici, siglando accordi vantaggiosi con i cosiddetti artisti “finti”.
Recentemente, l’inchiesta condotta da Liz Pelly, pubblicata su Harper’s, ha confermato le accuse mosse in passato contro Spotify. Il suo libro, intitolato Mood Machine: The Rise of Spotify and the Costs of the Perfect Playlist, in uscita a gennaio negli Stati Uniti, analizza l’espansione di artisti fittizi sulle playlist della piattaforma. Secondo Pelly, la strategia di Spotify ha mirato a condizionare i gusti degli utenti, invitandoli a utilizzare le playlist per creare atmosfere, piuttosto che per ascoltare artisti o canzoni specifiche.
Questa metodologia ha consentito a Spotify di riempire le sue playlist con contenuti commissionati, sottraendo risorse ai veri compositori e band, in un contesto in cui i diritti d’autore versati erano già minimi, ammontando a frazioni di centesimo per ogni riproduzione. Spotify non ha fornito commenti in merito all’inchiesta di Pelly, la quale ha suscitato interesse a livello globale tra media e specialisti del settore, rivelando così una realtà finora poco conosciuta riguardo l’utilizzo di artisti fittizi e la manipolazione del panorama musicale.
La strategia di contenuti e il programma Perfect Fit Content
Il programma “Perfect Fit Content” (PFC) rappresenta un’opzione strategica cruciale per Spotify, concepito per incrementare la proporzione di musica a costi ridotti nel catalogo della piattaforma. I produttori di brani coinvolti nel programma ricevono una remunerazione immediata, rinunciando contestualmente a una parte significativa dei loro diritti d’autore, in caso i brani generino ascolti consistenti. Questo approccio è diventato sempre più prevalente, specialmente in un contesto dove le piattaforme di streaming competono per attrarre abbonati, riducendo al contempo i costi operativi associati ai diritti d’autore.
Il PFC è stato presentato agli editori e ai curatori delle playlist di Spotify nel 2017, il che ha dato inizio a un periodo di attenta ottimizzazione di contenuti commissionati. La missione era chiara: integrare nella piattaforma canzoni con una facilità d’ascolto mirata a soddisfare esigenze ambientali piuttosto che artistiche. Di conseguenza, entro il 2023, il team del PFC monitorava centinaia di playlist, con una significativa porzione di esse composta quasi esclusivamente da tracce appositamente realizzate.
Uno degli effetti tangibili di questa strategia si può osservare nelle liste di riproduzione come “Ambient Relaxation”, “Deep Focus” e “Deep Sleep”, che hanno escluso artisti noti in favore di brani generati per soddisfare un trend di ascolto passivo. L’analisi dei dati interni ha dimostrato che gran parte degli utenti accede a Spotify non per ascoltare canzoni specifiche, ma per ottenere colonne sonore adatte a contesti particolari. Ciò ha incentivato un tipo di produzione musicale disinvolta, dove il principio guida consiste nel mantenere un profilo sotto la soglia di complessità, favorendo brani che potessero suonare familiari senza destare particolari emozioni o controversie.
Il fenomeno degli artisti anonimi e le playlist inflazionate
Il fenomeno degli artisti anonimi ha trovato una fiorente espressione all’interno delle playlist di Spotify, dove canzoni etichettate come opere di artisti sconosciuti raccolgono milioni di ascolti, spesso senza che il pubblico ne conosca l’identità reale. La ricerca di Liz Pelly ha evidenziato come dietro a circa cinquecento nomi di artisti spesso si celino soltanto una ventina di produttori. Ad esempio, la figura di Efkat, un artista attivo dal 2019, si distingue per le sue composizioni che dominano playlist come “Lo-Fi House” e “Chill Instrumental Beats”, attirando così l’attenzione senza la necessità di un’identità ben definita.
Questa pratica ha contribuito a creare un mercato musicale artificioso, dove l’anonimato è fondamentale per il modello di business di Spotify. Attraverso l’uso di artisti “finti”, l’azienda si è assicurata di ridurre significativamente i costi legati ai diritti d’autore, poiché i produttori di questi brani ricevono compensi immediati ma rinunciano a gran parte delle loro royalties. Progetti come il programma Perfect Fit Content hanno quindi alimentato una riproduzione di musica appositamente studiata per apparire in numerose playlist senza suscitare troppe domande.
Negli ultimi anni, critici e osservatori del settore hanno notato la progressiva diminuzione della presenza di artisti di spicco in playlist di grande popolarità. Secondo le testimonianze raccolte, il pubblico è sempre più abituato a considerare questi brani anonimi come colonne sonore per le loro attività quotidiane, richiedendo una musica che non richieda un’attenzione particolare, ma piuttosto facilità d’ascolto. Questo fenomeno solleva interrogativi sulla direzione del mercato musicale e sul valore attribuito ai creatori artistici reali che si trovano a fronteggiare un ambiente dove l’anonimato è diventato un vantaggio competitivo per la piattaforma.
L’influenza delle case discografiche e le pratiche di pagamento
La storia di Spotify non può essere compresa senza considerare il potente ruolo delle principali case discografiche globali. Fin dalla sua creazione nel 2008, l’azienda svedese ha dovuto confrontarsi con le presenze dominate da etichette come Sony, Universal e Warner, queste ultime che, all’epoca del lancio, possedevano una quota rilevante della piattaforma attraverso partecipazioni azionarie. Tale dipendenza ha conferito alle major discografiche una notevole influenza, perciò Spotify si è trovata costretta a stipulare accordi tramite i quali destinava circa il 70% dei suoi ricavi a questi colossi e ai relativi editori.
Questa impostazione ha avuto un impatto significativo sul modello di business della piattaforma, costringendo l’azienda a mantenere un equilibrio delicato tra l’acquisizione di contenuti originali e la necessità di massimizzare i profitti. Di conseguenza, Spotify ha iniziato ad adottare strategie mirate a ridurre i costi legati ai diritti d’autore, favorendo la produzione di canzoni commissionate attraverso programmi come il Perfect Fit Content, sfruttando artisti “finti” che accettano compensi immediati, evitando così i tradizionali pagamenti delle royalties a lungo termine.
Questa pratica ha suscitato forti critiche nel settore musicale, con artisti veri e nuove leve che si sentono sempre più emarginati in un panorama in cui l’attenzione è rivolta a creare contenuti per algoritmi piuttosto che valorizzare l’autenticità musicale. Le pratiche di pagamento che penalizzano i creatori di contenuti originali si ripercuotono non solo sulle singole carriere, ma anche sull’ecosistema musicale più ampio. Ad oggi, la creazione di una colonna sonora anonima e standardizzata ha reso i musicisti classici quasi invisibili, riducendo la loro possibilità di emergere in un mercato ostile e saturato.
La spinta di Spotify verso una programmazione a costi contenuti, in un contesto di crescente concorrenza, solleva domande cruciali sul futuro delle relazioni tra piattaforme di streaming e artisti. La crescente prevalenza di artisti anonimi potrebbe segnare un cambiamento irriversibile nel modo in cui la musica viene prodotta e consumata, mettendo a repentaglio la creatività e l’originalità che da sempre caratterizzano il mondo musicale.
Impatti sul mercato musicale e reazioni degli artisti veri
La pratica di includere artisti fittizi nelle playlist di Spotify ha creato un impatto significativo sul panorama musicale contemporaneo. Molti artisti emergenti e affermati si trovano a fronteggiare situazioni in cui la visibilità delle loro opere è diminuita, poiché i brani anonimi e generati su richiesta dominano le classifiche. Questo fenomeno non soltanto diminuisce il numero di ascolti per i musicisti autentici, ma riduce anche le loro opportunità di guadagno, rendendo complesso il sostentamento professionale nel settore musicale.
Artisti e critici hanno iniziato a esprimere preoccupazioni e frustrazioni rispetto a queste dinamiche. Coloro che hanno dedicato anni alla composizione e alla produzione di musica di qualità si trovano a combattere contro un sistema in cui i loro sforzi sono svuotati di valore a favore di contenuti creati in modo industriale e privo di anima. La percezione che il mercato musicale si stia allontanando dalla promozione dell’arte verso un modello di business basato su ascolti superficiali ha destato allerta.
Non è raro sentire artisti lamentarsi di un sistema che sembra privilegiare i quantitativi a scapito della qualità. La presenza prevalente di “musica innocua” nelle playlist significa che le opere coraggiose e sperimentali, capaci di evocare emozioni forti, rischiano di rimanere in ombra. La competizione con questi brani anonimi ha generato un senso di impotenza tra molti creatori, che denunciano un’ingiustizia nel modo in cui sono valutati e remunerati, puntando il dito contro concezioni distorte del valore musicale.
A fronte di questa situazione, è emersa una crescente richiesta di maggiore trasparenza e equità nel settore. Artisti e gruppi musicali, riconoscendo l’urgenza di una reazione, stanno cercando di formare alleanze e movimenti per rinforzare la loro voce nel discutere questioni di diritti e remunerazioni. È chiaro che il futuro del mercato musicale si gioca ora attorno alla capacità degli artisti di fronteggiare le sfide rappresentate da un ecosistema che tende sempre più a ricompensare la quantità a scapito della creatività.