Il lato umano di Apple Music
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Della musica in streaming, tanti hanno criticato la qualità del suono: l’ultimo in ordine di tempo è stato Neil Young, con un perentorio “fa schifo”.
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Pochi hanno invece sottolineato come Spotify, Deezer Apple Music e altri servizi online portino spesso a una fruizione solitaria, isolata, univoca.
È possibile condividere ogni ascolto, seguire amici e musicisti, mancano però la discussione, il confronto, la casualità, la musica non è mai stata così a portata di mano, ma l’eccesso di offerta ha soffocato la curiosità.
Eppure, secondo Spotify, ogni utente scopre 26 nuovi artisti al mese; il dato pare ottimistico, anche perché è in contrasto con un altro studio, pure derivato da dati di Spotify, secondo cui la maggior parte delle persone smetterebbe di scoprire nuova musica dopo i 33 anni.
Ma il problema rimane: come portare nuovi artisti a un pubblico che è sempre meno attento, e sempre meno attento alle novità?
Finora ha provveduto un algoritmo, una formula matematica che analizza le scelte di chi apprezza la nostra stessa musica e sulla base dei loro gusti propone artisti o brani che potremmo non conoscere.
Utili anche le radio costruite selezionando le canzoni scelte dal sistema, che col passare del tempo impara quali evitare e quali potrebbero piacerci anche se non le abbiamo mai ascoltate.
Eppure il computer non basta: i dati di partenza sono falsati, anche perché è la nostra scelta che è falsata; con un abbonamento mensile, quando non addirittura a costo zero, decidere se ascoltare Avicii o i Led Zeppelin non comporta una spesa: il capriccio di un momento è interpretato dal computer allo stesso modo della canzone di una vita, ma è chiaro che il loro valore non può essere lo stesso.
Così la vera novità di Apple Music è l’aspetto umano: la maggior parte delle playlist del servizio della Mela sono composte da esperti e appassionati di musica, prendono per mano gli ascoltatori e li portano in territori inesplorati, dove un accordo mai sentito, una voce fresca, due parole in rima possono far accendere una scintilla in fondo al cuore.
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Da una parte c’è Beats One, la radio globale che trasmette da Londra, Los Angeles e New York tutti i giorni a tutte le ore, dall’altra tante compilation che mettono insieme hit immancabili e pezzi quasi sconosciuti, come le cassette di una volta.
A curiosare nella playlist dedicata alle radici della musica industriale, ad esempio, tra i Suicide e gli Amoon Düül II ci sono gli Abba: anche le scelte di un algoritmo sono opinabili, ma questa è talmente bizzarra che non può non essere opera di un essere umano.
Apple Music nasce dall’esperienza di Beats Music, il servizio in streaming acquistato da Cupertino lo scorso anno per 3,2 miliardi di dollari.
Da noi l’azienda è nota soprattutto per le cuffie che portano il nome del rapper Dr. Dre; è stato lui a fondarla, insieme a Jimmy Jovine, personaggio chiave dell’industria discografica americana degli ultimi quarant’anni, oltre che produttore di Springsteen, Patti Smith, U2 e molti altri.
Direttore artistico di Beats Music era Trent Reznor dei Nine Inch Nails, che ora ricopre lo stesso ruolo in Apple Music; in Italia è Alessio Bertallot a fare qualcosa del genere per TIMmusic, il servizio in streaming dell’operatore telefonico.
Prima e dopo Apple Music, infatti, altri servizi online hanno affiancato gli uomini ai computer: non solo per le canzoni (Google, ad esempio) ma anche per le notizie, come Linkedin, o Snapchat, e di nuovo Apple con l’edicola digitale chiamata News che debutterà a settembre. Non è una rivincita dell’uomo sul computer, ma il riconoscimento che ogni approccio ha vantaggi e svantaggi: insieme garantiscono un servizio migliore, perché la musica è ritmo, non solo algoritmo.
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