Angela Finocchiaro: la recensione di ci vuole un gran fisico: il film dedicato alle donne un po sfigate?
Nell’estetica paratelevisiva, nella stentatezza di molte battute, in uno stagno di retorica buonista, nella presunzione di un film d’attore incentrato sulla pur brava Angela Finocchiaro – avevo ipotizzato che fosse un film girato almeno due, tre anni fa e che, per lo scarso appeal del prodotto, fosse stato distribuito solo oggi. Invece vedo che Ci vuole un gran fisico è del 2012. Questo rende ancora più gravi i punti deboli di quest’operetta gentile, a tratti anche gradevole ma abbastanza inutile e presto indirizzata al passaggio televisivo.
Queste mie iniziali riflessioni potrebbero far pensare ad un giudizio non lusinghiero su questo film di Sophie Chiarello, già collaboratrice alla regia de La banda dei babbi Natale, il più brutto film di Aldo, Giovanni e Giacomo. Eppure qualcosa si può trovare di buono in questo film. Non la figura dell’angelo custode un po’ sfigato, vista già in una decina di pellicole dagli anni ’40 ad oggi. Non l’assolo da protagonista della Finocchiaro che, per salvare il naufragio della pellicola, eccede in smorfie, facce buffe, reazioni di rabbia da tardiva imitatrice di Oliver Hardy.
Finocchiaro che comunque dimostra la capacità di reggere gli urti di film mediocri meglio di una macchinina autoscontro. Non lo sprecato cammeo di Elio, annegato in un ruolo ed in una sceneggiatura prevedibilissimi che neanche cerca di salvare con la sua indubbia e geniale creatività. Il tema di base di Ci vuole un gran fisico, seppur non originale, è di indubbia attualità: il sopraggiungere, più che della vera e propria vecchiaia, di un’età oltre i cinquanta in cui una società basata sulla competizione e sull’immagine rende uomini e soprattutto donne, invisibili, non spendibili, superflui. Questa dinamica sociale, quasi antropologica, viene esasperata soprattutto in una città competitiva, frenetica e produttiva per antonomasia come Milano.
Ma anche questi sembrano stereotipi e luoghi comuni precedenti alla grande crisi che attanaglia il nostro Paese da almeno cinque anni. Per questo il film della Chiarello mi appariva come un copione concepito almeno qualche anno fa ed uscito solo ora. Angela Finocchiaro, dipendente di un grande negozio di cosmetica, stressata dal terrore di essere licenziata e di non essere più “rigenerabile” in altre occupazioni, è una figura tragica dell’attualità, come quella dei padri separati spesso ridotti in miseria, figure già trattate ad esempio da Carlo Verdone e da Ivano De Matteo, in recentissime opere, con ben altra incisività.
Anche il timore di non essere più attraente sessualmente e di cadere in un oblio del corpo, in una soffitta dimenticata dell’eros, è un topos già magnificamente esplorato da Fellini, in una delle più celebri scene di 8 1/2. Insomma, i nodi esistenziali e sociali affrontati dal film, meritavano ben altro respiro e narrazione, anche in chiave comica. A confronto, pur non essendo un capolavoro, Fantozzi va in pensione, del lontano 1988, appare come un’opera di spessore e di riflessione giganteschi.
Altra chiave di lettura è quella del film “di donne”, della pellicola come prova d’attrice. In effetti, i personaggi maschili sono tutti negativi, se si eccettua l’incorporeo e buffo angelo custode Giovanni Storti. Si va dal manager cinico Raul Cremona all’ex marito parassita Elio. Purtroppo, le donne del film, a parte la già citata e mal utilizzata Finocchiaro, non ci hanno regalat0 queste “titaniche prove d’attrice”, nonostante lo sforzo delle brave e volenterose Antonella Lo Coco, Laura Marinoni e Rosalina Neri.
In conclusione, se siete impiegate stressate di Milano, a rischio licenziamento e di mezza età, questo potrebbe essere il film in cui un po’ riconoscervi e con il quale trascorrere un gradevole momento al cinema, magari il pomeriggio, a prezzo ridotto.