Alessandro Impagnatiello e i periti: Azioni drammatiche oltre la salute mentale
Capacità di intendere e di volere di Alessandro Impagnatiello
Il 27 maggio 2023, il delitto di Giulia Tramontano, uccisa con 37 coltellate da Alessandro Impagnatiello mentre era incinta di sette mesi, ha sollevato un acceso dibattito riguardo alla capacità di intendere e di volere del reo al momento della tragedia. Secondo le valutazioni dei periti psichiatri, il professor Gabriele Rocca e il collega Pietro Ciliberti, nominati dalla Corte d’assise di Milano, Impagnatiello era «pienamente capace» di intendere e di volere in quel frangente. Gli esperti hanno sottolineato l’importanza di non giustificare azioni così estreme con disturbi mentali, affermando che l’essere umano può compiere atti drammatici anche in assenza di patologie psichiatriche. Parte della loro analisi indica che considerare il gesto di Impagnatiello come caratteristico solo di una persona mentalmente disturbata riflette una forma di autodifesa psicologica comune, più che una verità obiettiva.
I periti hanno confutato quanto sostenuto dai consulenti della difesa, che avevano argomentato l’esistenza di un “disturbo ossessivo e paranoico” nel barman, adducendo come motivazione un presunto “black out” mentale durante l’omicidio. Al contrario, Rocca e Ciliberti hanno asserito che i tratti osservati nel comportamento di Impagnatiello si riflettono più in un narcisismo accentuato, piuttosto che in una patologia psichiatrica vera e propria. Essi hanno descritto il reo come una persona che vive una sorta di grandezza personale, in grado di manipolare le emozioni altrui per il proprio tornaconto.
Il momento culminante del delitto, fissato in una reazione di rabbia esplosiva, è chiaramente inquadrato come una risposta alla sua percezione di “sconfitta” derivante dal fatto di essere stato smascherato. Una tale condotta non si delinea quindi come frutto di un’incapacità di intendere, ma piuttosto come espressione di dinamiche personali estreme legate a un ego fragile e ipersensibile alle sue stesse vulnerabilità. Questo quadro complesso evidenzia come, anche in assenza di un disturbo mentale, una persona possa operare scelte devastanti, sottolineando la necessità di interrogarsi sulle radici psicologiche delle azioni violente.
Contrapposizione con la difesa: disturbo mentale o narcisismo?
Nel contesto del processo a carico di Alessandro Impagnatiello, emergono contrasti significativi tra le valutazioni dei periti nominati dalla Corte e quelle presentate dalla difesa. Mentre i periti psichiatri, Gabriele Rocca e Pietro Ciliberti, sostengono la lucidità di Impagnatiello al momento del delitto, i consulenti della difesa propongono una lettura assai diversa, caratterizzando l’imputato come affetto da un disturbo mentale. Questo disaccordo si focalizza su un punto cruciale: quali siano le condizioni psichiche che hanno guidato le sue azioni terribili.
I periti, con solida argomentazione, affermano che i comportamenti di Impagnatiello non possono essere catalogati come il risultato di una patologia psichiatrica, bensì sono espressioni di una personalità con tratti narcisistici. Secondo Rocca e Ciliberti, il barman manifesta un’interpretazione distorta delle relazioni interpersonali, dove la sua grandiosità si traduce nella capacità di controllare e manipolare le emozioni degli altri. Tali tratti, sebbene potenzialmente tossici, non equivalgono a un disturbo che possa giustificare l’incapacità di intendere e di volere, ma piuttosto portano a una responsabilità piena delle sue azioni.
La difesa, al contrario, punta sul concetto di “black out” mentale, suggerendo che Impagnatiello fosse in uno stato di incapacità transitoria al momento dell’omicidio, a causa di un disturbo ossessivo e paranoico originato da un forte narcisismo. Questa posizione rappresenta un tentativo di ridimensionare le sue responsabilità, collocando il gesto all’interno di una cornice che attenua le sue colpe. Tuttavia, i periti insistono sul fatto che un fattore psicologico come il narcisismo, sebbene grave, non canonicizza l’idea di una salute mentale compromessa in modo tale da escludere l’imputabilità.
Obiettivo centralissimo dell’argomentazione peritale è sfatare il mito che le azioni violente siano iscritte esclusivamente nel regno della malattia mentale, sostenendo che tali atti possono emergere anche da dinamiche relazionali insalubri e tratti di personalità distorti, privi di patologie cliniche evidenti. La questione solleva interrogativi non solo sul caso singolo di Impagnatiello, ma anche sul significato di responsabilità morale e giuridica, interrogandosi su quali siano le reali motivazioni che possono spingere un individuo a compiere gesti così estremi.
Questa contrapposizione tra periti e difesa non è solo una questione legale, ma tocca amplissimi temi di carattere sociale e culturale, incluso il modo in cui viene percepita e giustificata la violenza, l’importanza di riconoscere e affrontare i segnali di disagio psicologico e, in ultima analisi, la questione della prevenzione della violenza nelle sue molte forme.
La realtà dei femminicidi in Italia
I dati relativi ai femminicidi in Italia dipingono un quadro allarmante e richiedono una riflessione profonda. Ogni anno, circa 120 donne vengono uccise da partner o ex partner, con una tragica frequenza di un femminicidio ogni tre giorni. Questi numeri, purtroppo, non sono una novità e si confermano di anno in anno, allertando così l’opinione pubblica e le istituzioni sulla necessità di intervenire per prevenire tali atti violenti.
Secondo le analisi condotte dallo psicologo e psicoterapeuta Ivan Giacomo Pezzotta, specializzato negli studi sulla mascolinità e sulla violenza, il femminicidio non rappresenta mai un atto isolato. È spesso il culmine di un percorso di violenza fisica o psicologica, che potrebbe manifestarsi attraverso minacce, aggressioni verbali o comportamenti controllanti. Questi segnali spesso passano inosservati, alimentando una cultura della normalizzazione che impedisce di riconoscere i precursori di atti violenti. Purtroppo, si tende a giustificare tali comportamenti attribuendo all’uomo motivazioni che sembrano comprensibili, come la gelosia o la paura di perdere la propria compagna.
Le giustificazioni sociali per comportamenti aggressivi e violenti possono presentarsi sotto forme pericolose, poiché annullano il riconoscimento della responsabilità da parte degli uomini. Frasi come “è un bravo ragazzo, ma ha avuto un momento di crisi” riducono a un pregiudizio l’interpretazione di comportamenti violenti, contribuendo a una forma di permissivismo. Da questo punto di vista, diventa cruciale tornare a focalizzarsi sull’educazione emotiva, soprattutto nei giovani, affinché possano sviluppare una consapevolezza sana delle proprie emozioni e di quelle altrui.
Tale approccio educativo dovrebbe comprendere la capacità di riconoscere e gestire emozioni come la tristezza e la paura, che troppo spesso vengono negate nel contesto della mascolinità tradizionale, a favore esclusivo della rabbia. L’incapacità di esprimere queste emozioni in modo efficace è ritenuta un fattore di rischio nel manifestarsi di atteggiamenti violenti. La privazione dell’accesso a una gamma completa di emozioni contribuisce alla ricerca di potere attraverso la violenza, rendendo necessaria una riforma del modo in cui ci relazioniamo all’educazione maschile.
La questione dei femminicidi in Italia non può essere relegata a una semplice cronaca di eventi tragici, ma deve essere affrontata come un problema culturale complesso, dove educatori, psicologi, e la società nel suo insieme sono chiamati a impegnarsi per cambiare le narrazioni e gli atteggiamenti che sottendono a tali violenze. Solo riconoscendo il problema e i segnali di allerta, si potranno adottare misure efficaci per prevenire questi tragici eventi e promuovere relazioni più sane e rispettose.
Segnali sottovalutati di comportamenti violenti
Uno degli aspetti più preoccupanti nella discussione riguardo ai comportamenti violenti è la tendenza a sottovalutare i segnali di allerta che possono precedere atti estremi come quelli compiuti da Alessandro Impagnatiello. I professionisti che si occupano di violenza di genere evidenziano come questi comportamenti non emergano improvvisamente, ma siano spesso il risultato di un graduale accumulo di tensioni e segnali di disfunzione relazionale. Tali indizi possono manifestarsi in modi più sottili, come atteggiamenti di controllo, gelosia o aggressione verbale, che non vengono sempre riconosciuti come precursori di una violenza futura.
Il problema è che spesso i comportamenti inquietanti vengono normalizzati o minimizzati. Frasi come “è solo geloso” o “ha avuto una brutta giornata” tendono a giustificare condotte potenzialmente violente, spostando la responsabilità dal colpevole alla vittima o al contesto. Queste giustificazioni sono dannose perché obscurano la verità: ogni segnale di violenza, anche se non manifestato in modo fisico, è un indicatore di una dinamica relazionale tossica. L’idea che un uomo possa essere “un bravo ragazzo” alla luce di comportamenti violenti crea un ambiente permissivo che non affronta le responsabilità individuali.
Ivan Giacomo Pezzotta, psicologo e psicoterapeuta, sottolinea che il femminicidio non è un evento isolato, ma il culmine di una spirale di comportamenti violenti che possono non manifestarsi attraverso aggressioni fisiche. La violenza psicologica, le minacce e il controllo sono elementi altrettanto pericolosi e devono essere presi in seria considerazione. Tali comportamenti sono spesso sotto la superficie e costituiscono i primi segnali di una potenziale escalation. Spesso, l’incapacità di riconoscere tali avvisaglie porta a tragedie evitabili.
È essenziale quindi educare la società a identificare e affrontare questi segnali. Riconoscere i comportamenti di controllo o le forme di manipolazione emotiva è cruciale per prevenire il passaggio a livelli di violenza più gravi. In tale ottica, la costruzione di una cultura del rispetto e della gestione sana delle emozioni diventa un obiettivo primario. Questa cultura dovrebbe incoraggiare le relazioni basate sull’equità e il dialogo, piuttosto che sul potere e sulla dominazione.
Inoltre, l’educazione emotiva ha un ruolo significativo nella prevenzione della violenza di genere. Impedire la normalizzazione di atteggiamenti violenti e insegnare a riconoscere le emozioni sia proprie sia altrui permette di sviluppare una capacità di gestione che è fondamentale. Ai giovani va insegnato a vivere e a esprimere la tristezza e la paura, emozioni che troppo spesso sono stigmatizzate, in modo da favorire relazioni più sane e rispettose. Solo così sarà possibile contrastare la spirale della violenza e promuovere un cambiamento profondo nella società.
Importanza dell’educazione emotiva nella prevenzione della violenza
L’educazione emotiva riveste un ruolo cruciale nella prevenzione della violenza, in particolare nella lotta contro il femminicidio e altre forme di abuso. Secondo esperti come Ivan Giacomo Pezzotta, la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni è fondamentale per evitare che dinamiche relazionali tossiche si sviluppino e sfocino in atti violenti. In questo contesto, è essenziale che i giovani apprendano fin da piccoli come affrontare le emozioni in modo sano e costruttivo.
Purtroppo, molti modelli educativi tradizionali tendono a privilegiare l’espressione della rabbia come unica forma accettabile di emozione per i ragazzi, relegando al contempo la tristezza e la vulnerabilità in un angolo di stigma. Questa errata concezione può portare a fenomeni disfunzionali, dove gli individui non riescono a elaborare sentimenti di perdita o paura, diventando così più suscettibili all’emergere di comportamenti aggressivi. L’istruzione emotiva dovrebbe includere attività che incoraggiano i bambini a esprimere una gamma completa di emozioni, favorendo la comprensione e la gestione non solo della rabbia, ma anche della tristezza e della paura.
Un approccio precocemente educativo permette di dotare i giovani di strumenti per affrontare il rifiuto e il conflitto, sviluppando una maggiore consapevolezza delle proprie emozioni e di quelle altrui. Ad esempio, insegnare ai ragazzi che è normale sentirsi tristi o spaventati e che queste emozioni possono essere condivise in modo sano contribuisce a ridurre l’isolamento emotivo e a combattere l’idea di dover sempre apparire forti. Inoltre, la consapevolezza delle emozioni altrui stimola empatia e rispetto nelle relazioni, elementi cruciali per prevenire violenze di ogni tipo.
Le scuole e le famiglie hanno un compito fondamentale in questo processo; dovrebbero promuovere attività di gruppo e programmi di educazione emozionale che insegnino ai bambini e agli adolescenti come comunicare efficacemente, come gestire le tensioni e come risolvere i conflitti senza ricorrere alla violenza. La costruzione di un clima di fiducia può ulteriormente aiutare i giovani a sentirsi a proprio agio nel condividere le proprie frustrazioni senza timore di essere giudicati.
Lavorare sull’educazione emotiva significa affrontare le radici del problema della violenza di genere. Per costruire relazioni sane, è indispensabile partire dall’insegnamento di una corretta gestione delle emozioni, incoraggiando una cultura che valorizzi il dialogo e il rispetto reciproco. Solo attraverso questi interventi a lungo termine sarà possibile spezzare il ciclo della violenza e promuovere una società più giusta e rispettosa.